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Scarlatti Garage – Scarlatti Garage

Già dal primo istante. Dal loro nome. L’immediatezza crea il pregiudizio. Leggi Scarlatti Garage e pensi facciano ska. Ti chiedi anche perché non è scritto con la k, magari. Abituato a giochi di parole che sgozzano le parole. Non pensi a Domenico Scarlatti che 300 anni fa contribuiva a rendere Napoli il corpo derviscio della musica. Poi li vedi salire su un palco in un locale che è la tua seconda casa, e bevi la tua birra pensando a quante cose dovrai fare il giorno dopo. Non fai nemmeno caso a loro. Finché un suono non penetra pulito e netto nella tua testa, e ti costringe a dissotterrare l’interesse che hai nascosto insieme allo stupore.
Vedi un ragazzo “normale”, dall’aspetto “normale”, che guarda dritto il niente, lo guarda in faccia e lo sfida, lo guarda e rovescia il senso del nulla. Scioglie sui nostri veli di quotidianità una voce morbida e tagliente, la lama nella torta, l’evasione, la cura meticolosa dell’inganno e la rivincita senza entusiasmo.
Intorno a lui e nelle sue mani strumenti che suonano essenziali e convincenti come affermazioni.
Come un cubo di Rubik che si risolve solo quando i colori sono perfettamente combinati. E non disuniti e banali. Quattro elementi come punti cardinali. Un rock garage grezzo e curatissimo. Boston e Seattle. Raffinati e sporchi. Colpisce il timbro di Dario Lapelazzuli. Nero, graffiato, strappato eppure fermissimo. Una voce ingolata a tratti, a tratti spalancata. Come implodere di rabbia e costruire strutture fragilissime. Come soffocare e poi consumare l’aria. Questo il loro linguaggio: Ironico, cinico, velenoso, “curaro”. E consapevole, dolce, riflessivo. A piccole dosi. Chiedo il loro demo. Mi fa compagnia in macchina, per giorni. Sei brani per un totale di 23 minuti.
La radio. Si sente l’accento napoletano, si sente l’appartenenza e si sente la distanza. Mi piace il modo di pronunciare le parole. Mi piace il suono ordinato e mai ordinario della musica. Mi piace il messaggio di possibilità, di coinvolgimento, di trasporto. “Presto per andare via, tardi per cambiare idea. Controvento ingoio l’anima.” Lasciar fare. Lasciarsi ingoiare come anima. Temere ma non rinunciare.
Non è colpa mia. Crescendo di musica, chitarra, batteria, polvere di voce. Narcotizzante. Allora ricordi la testa che oscilla, le spalle che muovono l’intero corpo e l’interno mondo. Perché ogni dettaglio è comunicazione. Se si parla poi di se stessi, dell’incredulità di fronte all’indifferenza, dell’arroganza bambina, affamata di luce, che fa correre e cadere con la stessa certezza. “L’apparenza lentamente trasforma bugie in essenza.”
People are strange. Mani e suoni in aculei, inarcati, dritti. Pochi. Calati nel bianco che è il più psichedelico dei colori. Vestiti di semplicità, che è la più estrema delle trasgressioni. Tra i sei è il brano che mi ha colpita per primo. “I nodi sono al pettine, se da cosa nasce dimmi cosa?” Quante parole servono per spiegare il disincanto se basta una domanda? Se manca la risposta? La sintesi di un pensiero oggettivo nella più soggettiva delle visioni.
Dejàvu: ci sono volte in cui scegli di non vedere. Perché l’essere ciechi alimenta il credo. E credere è necessario per allungarsi, per dilazionarsi nel tempo. Ma la consapevolezza blocca il flusso e rende nitido tutto. Ci si purifica e si comprende la differenza di sostanza tra l’incanto e l’incantesimo. “Ciò che l’occhio svela la mia mente nega.”
Burattino. il buonsenso nel credere che non è necessario essere maestri, ma è necessario essere discenti sempre. Il silenzio contro padroni sordi. Il movimento al contrario. Le spalle che muovono i fili e le mani dello stratega. Non è ribellarsi, è manovrare ogni manovra, è renderla visibile, è rompere a calci il teatrino e svelare il regista occulto in ginocchio.
Take it easy. Ultimo brano. Molteplici sensi, tutti racchiusi nella più apparentemente banale delle frasi: “L’uomo che balla in mutande ieri abbassava lo sguardo”. Si può essere insolenti e spudorati fino all’osso, ma non si può nascondere il sangue, il taglio, l’ emotività.
Non c’è la soluzione quando non c’è l’enigma. C’è la spontaneità, la nudità.
Scendere dal palco e scegliere la lucidità alla nebbia, il suono del rumore e il rumore del suono. E l’umiltà del silenzio che non fa abbassare la testa. Ma fa ammutolire lo stupido eco.

Credits

Label: SuoniVisioni – 2006

Line-up: Dario Lapelazzuli (voce e chitarra) – Marco Risorgente (chitarra) – Paolo Vitale (basso) – Maurizio De Siena (batteria)

Tracklist:

  1. La radio
  2. Non è colpa mia
  3. People are strange
  4. Dejàvu
  5. Burattino
  6. Take it easy

Links:Sito Ufficiale,MySpace

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