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Una musica che nasce dalle onde e nelle onde muore. La scuola napoletana

la-scena-napoletanaC’era una volta una città talmente bella che una sirena la scelse come posto in cui morire. Una città benedetta dal mare che lambiva l’ombra di un vulcano. Era Napoli. Napoli che incarnava l’ideale della città mediterranea, che viveva di sole, pizza e mandolino. Napoli della cartolina con il Vesuvio e il pino marittimo. Napoli della scurdammoce ‘o passato. La Napoli allegra e spensierata.
Bella questa Napoli, vero? Vi piace?
Peccato che questa Napoli, quella che ho appena descritto,  sia una bugia. Una pessima bugia perché Napoli è, ed è sempre stata, una città violenta, buia, maleodorante e traditrice. Soprattutto una città irriconoscente, una città abitata da fantasmi arrendevoli e arroganti che hanno fatto della cartolina del golfo una giustificazione. Una città in cui l’unica cosa che non è mai mancata è stata il sole. E la musica.
Napoli che, come tutte le città portuali, ha subito i fasci migratori sin da epoche antiche, vivendo sulle sponde del mediterraneo ha incanalato in sé le culture dei popoli che su quel mare sono sorti e sono morti, e subendo le dominazioni francesi e spagnole ha fatto di quei due idiomi buona parte del suo dialetto fortemente musicale. Ha tratto, dalle tradizioni sonore arabe, quelle modalità che poi ha trasformato nella Canzone Napoletana Classica.

Essendo una città con un elevato numero di drammi e problemi, ha creato una variegata base popolare che ha fatto dei contrasti la sua caratteristica primaria, affondando le mani prima nelle politiche fasciste del ventennio e poi in quelle proletarie dei settanta. Una città che è sempre stata orgogliosa del suo essere “difficile”, ma che per assurdo è sempre stata assistenziale e pretenziosa nel sentirsi in diritto di ricevere chissà cosa, come se l’aiuto le fosse dovuto, ma senza sforzarsi minimamente di cambiare e migliorare. In breve, una città contraddittoria. La nuova musica che veniva da oltreoceano e dall’Inghilterra non poteva non lasciare il suo segno su un sentire da sempre permeabile alle novità sociali e creative.
Napoli è la città che, insieme a Milano, vede la più vasta e prolifica scena progressiva dei settanta. E’ in questa città contraddittoria che si tiene il Be In Festival, la rassegna di gruppi rock di matrice prog che, insieme al festival del Parco Lambro, caratterizzerà quella stagione musicale barocca e, tutto sommato, fine a se stessa. E’ qui che si sviluppano dalle ceneri degli Showmen, che negli anni ’60 regaleranno la mitica Un’Ora Sola Ti Vorrei, quei Napoli Centrale che vedono nel sassofonista James Senese e nel batterista Franco Del Prete i loro motori ritmici. Una musica che deve tantissimo al rhythm’nblues e che trova in derive jazzistiche la sua ragione d’essere. Una band tecnicamente validissima, decisamente “avanti”, che fa propria la lezione dei Weather Report ma che si avvale del dialetto napoletano per sfornare l’album omonimo e il mitico Mattanza. Tutto si spegne nel giro di pochi anni però. I componenti sentono il bisogno di carriere separate che non li porteranno molto lontano ma che contribuiranno alla leggenda della loro tecnica quasi inarrivabile. Nel frattempo, fra miriadi di gruppi rock progressive che nascono e muoiono, un chitarrista eccelso, dal sorriso accattivante e furbo, tenta i primi esperimenti di fusione fra canzone classica napoletana e blues americano. Esperimenti che lo porteranno a migliorarsi anno dopo anno, a cercare nuove strade fino ad approdare a sonorità mediterranee che caratterizzeranno tutta la sua produzione. E’ Pino Daniele, l’unica e indiscussa voce della Napoli a cavallo fra gli anni ’80 e ’90. Liriche che raccontano di gente del popolo con la lingua del popolo, che parlano di pomeriggi fra i vicoli, di nostalgia, di rabbia e di povertà, condite da arpeggi classici e distorsioni americaneggianti che scaraventano il cantautore napoletano nell’olimpo del mito. Pino Daniele ovvero sonorità blues che strizzano l’occhio al jazz fusion e che saranno  la chiave di volta della sperimentazione della scena musicale cittadina. Circondatosi di musicisti eccelsi e carismatici, Daniele darà alla luce Vai Mò e Nero A Metà, due dischi che sono dichiarazione di intenti, manifesti di provenienza e raccolta di sogni e speranze in un colpo solo. Gli anni scavano però profonde rughe nella musica di Pino Daniele, tanto che i suoi ultimi dischi sono addirittura prescindibili a detta di chi scrive, ma ciò non toglie che il suo blues del golfo sia stata la vera canzona nova di una città che del nuovo si cibava ma che, proprio del nuovo, aveva fin troppo paura. Il nuovo. Il nuovo fa sempre paura.
Napoli è cresciuta con l’assimilare il nuovo e poi, una volta scoperto che non c’è nuovo che tenga senza partecipazione costruttiva ha rigettato il sistema, combattendolo a spada tratta. Spesso è una limitazione ma a volte è anche qualcosa di stimolante.
Il combattimento, inteso come opposizione, è un atteggiamento tipico della scena musicale napoletana dei primi anni ’90. Scena che vede la sua fucina nel centro sociale autogestito Officina 99 da cui usciranno i 99 Posse e gli Almamegretta e in cui si ritroveranno brevemente la storica formazione dei Bisca. Ma sono i 99 Posse e gli Almamegretta a catalizzare l’attenzione. Forti di musicalità attuali ma con testi che dire arrabbiati è dire poco, le due formazioni capeggiate da Zulù e da Raiz sono state, nei ’90 della presa di coscienza della fine delle ideologie, il colpo di coda del Movimento. Le loro tematiche aggressive e senza mezze misure hanno attirato i fuochi della censura, delle interrogazioni parlamentari, delle parole acide dei benpensanti. Hanno aperto gli occhi a coloro che credevano che la musica non avesse più niente a che fare con il sociale. I 99 Posse sono stati lo schiaffo alla società marcia e buonista di quegli anni mentre gli Almamegretta hanno incarnato la ricerca musicale e la poesia come prodotto di integrazione razziale. Due perle luminose ma sporche, vere e veraci, che sono andate man mano scomparendo con un mediocrizzarsi del sentire sociale.
Tutto questo e anche di più è stata la scena napoletana dalla fine dei ’70 all’inizio dei ’90. Qualcosa di multiforme e cangiante, sempre in divenire, legata alla tradizione ma con un piede nel vivere il momento attuale, figlia e vittima del suo stesso essere contraddittoria, multietnica, laboriosa e sfaticata, impegnata ed emotiva, costruttiva e inconcludente. In una parola, napoletana.

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Un solo commento

  1. bassistamistico

    bellissima recensione davvero complimenti ma non credo che 99 posse e almamegretta sono scomparsi perchè la questione sociale stava scemando credo che sono scomparsi perchè probabilmente avevano voglia di scomparire e di fare altro….perchè cosi vanno le cose e cosi devono andare e forse perchè gli interessi della gente e dei compangni si erano occidentalizzati

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