Un venerdì che si schiude a una provvisoria primavera, a Bologna; un venerdì che guarda oltreoceano, quello dell’Estragon. Questa sera è di scena l’America: unica data italiana (fino all’estate, almeno) per i Band of Horses, impegnati in un lungo tour per presentare e raccontare il loro ultimo lavoro, Infinite Arms, pubblicato nel 2010. La band è evidentemente molto attesa: molte le auto che si infilano ordinate nel parcheggio del locale e lunga la fila di camicie a quadri, alla cassa e all’entrata.
L’apertura è affidata a Mike Noga & The Gents, progetto parallelo del batterista dei Drones. Si entra nel mood giusto: chitarra, voci ruvide, cantautorato grezzo e diretto. Ed il locale continua ad affollarsi.
Si fanno desiderare un bel po’, i nostri, ma quando le 23 sono ormai passate finalmente compaiono sul palco. Prima di tutti arriva lui, Ben Bridwell, accompagnato da Taylor Ramsay, e si comincia così, con l’Estragon zittito dalla semplicità di due voci e una chitarra. Evening kitchen inaugura la serata con delicatezza, spianando la strada alla potenza diretta dei brani successivi.
A volte si procede semplificando: Factory, per esempio, si regge e avvolge con grazia. Altre volte ancora, invece, si procede per accumulazione: impossibile evitare l’impatto con il muro di (tre) chitarre con cui si presenta Cigarettes, wedding bands.
In perfetto (e mai precario) equilibrio fra queste attitudini, i Band of Horses infilano i brani in un set tiratissimo, quasi senza interruzioni, spaziando tra l’ultimo disco ed i due lavori precedenti. Trascinano il pubblico a loro piacimento, tra momenti di struggente intimità (No one’s gonna love you, per esempio, o Blue Beard) e picchi di adrenalina incontenibile. Laredo è accolta con un boato, così come l’accoppiata Is there a ghost? e NW apt, che per dieci minuti incendia il locale.
Non c’è un ingrediente segreto in questo live, se non la maestria con cui sono miscelati tutti i semplici ingredienti: estro, grande affiatamento e la sicurezza di chi ha consumato le suole degli stivali sui palchi, facendosi venire i calli a forza di suonare. C’è l’America delle origini, il grunge e la flanella di Seattle (non dimentichiamoci che i Band of Horses sono tra gli artisti favoriti di Eddie Vedder, che li ha voluti con sé in tour), ci sono strade assolate e polverose, c’è la provincia del South Carolina. Un rock di matrice classica, che si sporca senza paura attingendo al country e al blues.
Chi ama i Band of Horses su disco (come pure chi li conosce appena) non potrà che esserne completamente sedotto dal vivo: sul palco raggiungono una dimensione ancor più integra e completa. Sono grezzi, perché impattano senza levigare la melodia, pur essendo allo stesso tempo fortemente equilibrati e padroni dei propri strumenti. Si muovono con grande naturalezza, nonostante si percepiscano nettamente impegno e precisione: ognuno al proprio posto, senza sgarrare e amalgamandosi in un’unica soluzione sonora. I cori, caratteristica cui il rock nostrano non ci ha mai abituati, sono padroneggiati e armonizzati con cognizione, senza esagerazioni. La voce di Bridwell, sostenuta dall’apporto musicale e canoro di Ryan Monroe, regge quasi senza imperfezione alcuna per tutto il live. La presenza scenica, dal frontman al tastierista passando per l’energico Bill Reynolds al basso, è ineccepibile, valore aggiunto di un live praticamente perfetto.
Si sono fatti attendere a lungo, i Band of Horses, ma ne è certamente valsa la pena. Si concedono un’unica veloce pausa, prima di salutarci quando ormai è quasi l’una, e quando rientrano sul palco la voglia di suonare è ancora tutta lì, per nulla scalfita da una scaletta che non ha concesso tregue.
Una encore breve, niente affatto casuale e tanto meno sotto tono: Ode to LRC e Wicked Gil ci conducono direttamente alla chiusa magistrale sulle note di The Funeral.
L’Estragon è incantato, le pareti tese al limite e l’aria satura di questo rock coinvolgente, diretto e spogliato di ogni eccesso. Non è scontato ottenere un tale successo a fronte di tanta essenzialità, eppure i Band of Horses convincono e lasciano un segno indelebile, una cicatrice di puro godimento.
Il concerto deve finire, la band saluta compiaciuta dal palco e l’ultima immagine che ci rimane è il sorriso diabolico che spunta dalla folta barba di Ben Bridwell. Sembra il protagonista di un romanzo d’avventure, un vagabondo pirata della polvere. E alla fine della serata, te la porti a casa, questa polvere di America. Ti si deposita addosso. Ora vai a dormire, domani le chiederai di raccontarti altre storie. (Si ringrazia Katia Giampaolo – Estragon Booking; foto di Emanuele Gessi; Lost Gallery)
Ti potrebbe interessare...
The Smile @ Roma Summer Fest, 24 giugno 2024
Arriviamo in trasferta da Napoli poco dopo l’apertura dei cancelli. È una fresca serata estiva, contrariamente …