Dal pop degli esordi al folk-blues di oggi in un magico approdo sonoro che poteva riuscire solo al talentuoso Giovanni Vicinanza con il suo progetto The Softone. Il secondo lavoro della band partenopea, Horizon tales è un fantastico disco di atmosfere desertiche e alcoliche, nato dal cambiamento di line-up e dalla produzione artistica di Cesare Basile. Ancora una volta dalla Napoli che non ti aspetti fuoriesce un disco senza confini.
Vi avevo lasciato con una spiccata attitudine pop nel primo disco ed ora vi ritrovo con atmosfere in bilico tra il folk, il blues ed il country. Come è avvenuta questa metamorfosi? C’è dietro per caso un incontro con un disco di cui ti sei innamorato?
Tra il primo e il secondo disco sono passati quattro anni, in questo lasso di tempo ci sono stati molti cambiamenti ma il più significativo è stato sicuramente il mio trasferimento a Boscotrecase, un paesino ai piedi del Vesuvio e in prossimità del mare. Qui ho aperto il mio LavaLab Recording Studio e sono entrato in contatto con dei musicisti straordinari. Con una certa meraviglia ho scoperto che nella provincia di Napoli c’è una cultura del blues ricchissima, chi suona lo fa con una tale espressività da lasciare a bocca aperta. Aver avuto quindi la fortuna di suonare e confrontarmi con musicisti di questo calibro e uno studio a disposizione per registrare in tutta tranquillità ha fatto sì che questo secondo album venisse alla luce.
Nel periodo in cui ho scritto le canzoni di Horizon Tales non c’è stato un disco in particolare di cui mi sono innamorato, ricordo solo che ascoltavo molto Hold Time di M.Ward.
Come è stata la collaborazione artistica con Cesare Basile?
Lavorare con Cesare Basile è stata una bellissima esperienza, c’è stata subito una bella intesa e questo ha permesso che le canzoni uscissero esattamente come le avevo in testa. Il suo approccio alla registrazione è molto istintivo, la prima take di solito è quella buona, difficilmente si mette a fare e rifare qualcosa per ottenere l’esecuzione perfetta. Affrontare un disco in questo modo è sicuramente meno stressante e in fin dei conti quello che ne esce è qualcosa di “vero” che credo venga percepito da chi si mette all’ascolto.
Son of God è fantastica, la vedrei nella colonna sonora di un film di Lynch…
In effetti hai centrato in pieno, David Lynch rientra tra i miei registi preferiti. Son of a God è una canzone scura, con un incedere ossessivo e una chitarra visionaria che ben si presterebbe a un film del Maestro della suggestione. L’utilizzo della musica che Lynch fa nei suoi lavori è ineccepibile, basti pensare a quanto fatto in passato con Angelo Badalamenti, il tema di Twin Peaks non penso avrebbe la stessa carica suggestiva se fosse slegato dall’immaginario creato dalla serie televisiva.
Qual è il brano del disco che ti piace di più a livello di arrangiamenti e di testo?
Sono molto legato alla canzone Alien lanes, un pezzo che ho scritto inizialmente per una compilation francese che prevedeva una composizione con delle note predeterminate. Una volta finito quell’esperimento, che avevo preso quasi come un gioco, mi sono reso conto che quello che avevo per le mani era buono così ho cominciato a lavoraci seriamente fino ad arrivare alla canzone finita. Qui, più che in altre parti del disco, la mia vena blues viene allo scoperto e segna un netto distacco dalle sonorità del primo disco These days are blue.
Il testo è incentrato sulla difficoltà di comunicare, di riuscire a entrare in contatto gli uni con gli altri evitando pregiudizi che possono creare muri difficili da abbattere. Lo “stick them up against the wall” all’inizio della seconda strofa è una citazione di una battuta di Tom Courtenay in Gioventù, amore e rabbia, film inglese del 1962. Il titolo invece è un tributo ai Guided by voices.
Puoi parlarci della collaborazione con David Herrera per il video di On your trail?
La scelta di Herrera è stata fatta dalla nostra etichetta Cabezon Records che era già in contatto con il regista californiano. Devo dire che sono rimasto molto soddisfatto del suo lavoro, mi piace il taglio cinematografico che gli ha dato, così come i richiami a capolavori come Chinatown di Roman Polanski o La Conversazione di Francis Ford Coppola. David Herrera sta cominciando a farsi notare negli States, recentemente è stato invitato a tenere delle lezioni alla UCLA (Università della California di Los Angeles) e Paste Magazine ha inserito il suo clip non ufficiale di How to disappear completely dei Radiohead tra i 50 migliori video della scorsa decade. Averlo avuto alla regia di On your trail è sicuramente motivo di orgoglio.
Verso dischi come il tuo o quello di Fabrizio Cammarata molto spesso sono mosse sempre le stesse critiche: “bello, ma che senso ha in una nazione come la nostra dove la tradizione cantautorale è diversa”. Io non la penso così. Che mi dici tu?
Mi sembra che questa sia una tendenza degli ultimi tempi, forse il fatto che l’Italia non riesca in nessun modo a esportare musica in inglese sta spingendo i musicisti a confrontarsi con la realtà di questo paese dove, si sa, il mercato (parolona!) vuole un solo idioma: l’italiano. Non penso sia questione di tradizione ma di risultati. Io scrivo in inglese perché mi viene spontaneo, ho ascoltato così tanta musica straniera che quando prendo in mano la chitarra mi è naturale esprimermi in questo modo. E poi sono affascinato dall’idea di poter essere accessibile a un maggior numero di persone rispetto a chi canta in italiano. Sono convinto che se avessi l’opportunità di portare in giro seriamente la mia musica per l’Europa e l’America saprei farmi apprezzare.
Sei della stessa terra dei Songs For Ulan. Come fate tu e Pietro a scrivere questa musica tra il mare ed i limoni, dove il deserto è un miraggio?
Non saprei proprio dirti. A Napoli la musica americana è arrivata prima che in tante altre città italiane e forse l’abbiamo assimilata con naturalezza e poi comunque, visto come vanno le cose per chi cerca di fare musica, non è difficile immaginare il mare trasformarsi in un deserto… non si va da nessuna parte.
Sei pronto a girare di nuovo l’Europa per esportare la bellezza della tua musica? Cosa significa il viaggio per la musica?
Viaggiare è da sempre un modo per allargare i propri orizzonti, abbattere alcuni muri mentali che rimanendo fermi a volte neanche ci si accorge di avere. Suonare le proprie canzoni all’estero è un’esperienza fondamentale perché ti dà la possibilità di confrontarti con un pubblico spesso curioso e senza pregiudizi che ti aiuta a capire quali sono i tuoi punti di forza e dove invece devi migliorare per essere più comunicativo o rendere lo show più coinvolgente. Da noi è tutto più complicato, c’è poca attenzione per la musica, soprattutto per le proposte che non sono in linea con la moda del momento. Ora stiamo girando su e giù per l’Italia ma se tutto va come speriamo, in autunno dovremmo riuscire a presentare Horizon Tales anche in Francia e in Svezia. Inutile dire che non vediamo l’ora.
Dimmi cinque canzoni che ti hanno segnato in momenti particolari della tua vita?
Can’t be satisfied – Muddy Waters, Old man – Neil Young, Love songs on the radio – Mojave 3, Katy song – Red House Painters, Hold time – M.Ward.