La sala del Cinema Massimo di Torino si riempie a poco a poco. La gente è sparsa a branchi tra le poltrone, le prime file vengono occupate solo all’ultimo. Il mercoledì è un buon giorno per ascoltare musica live, un giorno in mezzo alla settimana, uno quasi a caso che ti trascina fuori di casa. I Giardini di Mirò stasera sonorizzano due film muti: Rapsodia Satanica e a seguire Il Fuoco. Il loro ultimo disco, Rapsodia Satanica appunto, è uscito di recente e la band è già in tour a presentare questo nuovo importante progetto.
Il gruppo prende posto lentamente tra gli strumenti sotto il grande schermo. Buio in sala. E poi ecco le prime luci della pellicola del 1917 di Nino Oxilia. Il prologo è danzato su una melodia letargica che introduce la figura conturbante della dama Alba d’Oltrevita. Irrequieta e tormentata, l’anziana donna si aggira per la sua nobile dimora ed il suo giardino fino a quando non compare Mefisto tra gli abbagli dei suoi desideri. Con lui stringe un patto: una rinnovata giovinezza in cambio del divieto di innamorarsi. Sancisce la loro unione un’esplosione di suono, dove le chitarre precipitano vorticosamente all’unisono. Una clessidra si rompe cadendo a terra. È l’inizio della fine per Alba e lei, oltre quel suo ghigno spettrale, lo sa bene. Gli strumenti commentano con religiosa puntualità il climax delle scene, accarezzando la mimica dei volti, e l’intensità del timbro strumentale accresce nel petto le emozioni non dette dei protagonisti.
Parte seconda. Ora la dama è giovane e bellissima e corteggiata nel suo giardino dai profumi sensuali, non c’è uomo, infatti, che non cada ai suoi piedi. I colori della pellicola si schiariscono. Pause, solo qualche arpeggio ad accompagnare il pulsare sintetico. “Sull’onda muta amore canta”. La didascalia porta l’accento sull’ “idea astratta” che una chitarra avverte e comunica con i suoi tremolii. Le immagini si tingono d’azzurrino. Alba è corteggiata da due fratelli, in particolare Sergio e Tristano. Il primo le porta i fiori, innamorato perso non vede la fine negli occhi dell’amata. La semantica è scandita da una marcia funebre che si concede variazioni tra nervature orientaleggianti e distrazioni di rock classicheggiante. Il violino incespica e s’agita tra lo sguardo combattuto di Alba e poi, ecco, s’incupisce e sfilaccia, sfuma, alla presenza di Mefisto che si cela dietro tende o sopra qualche ramo scheletrico. “Amore o morte: qual è il mio destino?”: rosso su nero i pensieri, lapidari, catrame e sangue. Fotogramma come sigillo. Sergio la vuole per sè, le chiede di sposarla o si ucciderà. Scandire, inesorabile, il desiderio: una cavalcata post rock si tuffa nella grammatica cinematografica dei primi del Novecento per dare vita ad un insolito ma efficace amalgamo di linguaggi artistici differenti. Distratta dalle attenzioni di Tristano, Alba non corre da Sergio che presto si toglie la vita. Lì, vedendolo sulle scale, riverso a terra, qualcosa cambia in lei, si interrompe, viene meno. L’amore s’insinua e la prima ruga riaffiora. Nasce il tormento. I suoni si dilatano, così come anche gli eco degli stessi. La donna si chiude nella sua dimora, atterrita dall’angoscia e dai sensi di colpa. Il mistero è elettrificato: come un megafono il dolore si fa corale e s’ammassa plumbeo su Alba. I bassi sondano e accarezzano il cuore della donna nella sua solitudine. “Tristano è il cavaliere che ogni notte passa su dal monte”. Il desiderio le preme nel petto, il senso di colpa la attanaglia. La batteria ne descrive gli esordi e poi i tumulti. La pelle lucida e morbida l’ha abbandonata ma ben altro la riveste ora: immersa nella natura, Alba è come rinata e sembra avvertire tutto l’amore dell’universo, dalla linea perfetta delle foglie ai raggi di sole obliqui sul suo giardino. Enfasi, sbilanciarsi, la vertigine. S’affrettano le chitarre a star dietro all’impetuosità dell’amara Alba che si vela “sacerdotessa dell’amore e della morte”. Poi, un semplice chinarsi sulla sponda del laghetto rende chiaro alla dama il suo destino, mentre Mefistofele compare alle sue spalle come ultimo guizzo di pellicola. Richiami di timbri elettronici spettrali rimangono sullo sfondo.
Le variazioni della rapsodia durano un’ora per poi lasciare il posto ad una pausa di dieci minuti. Tempo del cambio palco e i Giardini di Mirò si apprestano a musicare un altro film: Il Fuoco. Film del 1915, girato da Giovanni Pastrone, che il gruppo aveva sonorizzato nell’omonimo disco pubblicato nel 2009.
La favilla, la vampa e la cenere. La pellicola è suddivisa in tre parti, tre capitoli di una storia che vede protagonisti lei, la poetessa illustre e lui, il pittore ignoto. L’armonica a bocca fomenta il diradarsi del rosso tramonto sullo schermo e a picco sul fiume, lungo il quale si trovano entrambi i due artisti: lui dipinge, lei scrive. È la favilla, l’alba. Stessa ispirazione, stesse impressioni riprodotte su due fogli distinti. La poetessa lo vede, è curiosa, lo spia. I due si conoscono timidamente, in una profusione di sorrisi tra l’imbarazzo e la malizia, soprattutto di lei, ferina e sontuosa nel lasciare lì il pittore, ancora con gli occhi sulla sua scia. Esplosioni e rumorismi fanno da cornice ad un violino dolente e tremante. Lui, tornato a casa pensa alla donna che lo ha stregato, si guarda attorno tra quelle mura e nulla gli sembra più come prima, ha bisogna di rivederla, ancora. Ritorna dunque sul luogo del loro incontro e lì la ritrova ma, stavolta, viene scacciato a malo modo. Gli occhi del poeta sono smarriti e cercano una risposta a quel comportamento freddo e distaccato, completamente diverso dal giorno prima. C’è un biglietto però, sapientemente lasciato dalla poetessa appeso ad un ramoscello. I versi si infiltrano nel cuore del pittore come la dose di veleno che supera ‘la giusta dose’ poichè la mano che ha scritto quelle parole sa bene come carezzare le emozioni dell’altro. Quei versi prevedono già tutto: l’innamoramento, l’attesa, il ghermire l’attimo nella vampa che in fretta nasce e muore, la lotta di entrambe gli amanti per sopravvivere. “Giungerò dal mistero nel tuo nido” e così succede. La poetessa arriva a casa del pittore cogliendolo impreparato alla sua presenza ma ugualmente felice, perso, senza via di ritorno. “Cupe vampe” s’alzano di lì a poco sui passi di una melodia struggente, in un’atmosfera solenne e dal sapore liturgico. La tensione tra i due cresce, il gioco è appena iniziato e i tocchi affrettati sulla tastiera accelerano e amplificano l’inesorabilità delle loro vite. “Cena d’altri tempi, col gatto e la falena e la stoviglia semplice e fiorita” Gozzano così descriverebbe l’umiltà e l’ingenuità dei sogni del pittore che crede all’amore di quella donna. La poetessa lo porta via dalla casa materna per vivere giorni di abbandono felice nella sua presunta villa. Nel sogno assieme la musica è un carillon delicato, dapprima. È la vampa: capitolo sonoro complesso e articolato. Le chitarre dialogano, vacillano, e poi l’orchestra si gonfia in un temporale di scosse elettriche. Lui la dipingerà, esalterà ogni suo lato più narcisistico. Lui crederà di poter diventare quasi famoso con quel dipinto. La poetessa gli rende tutto: amore, fama, vita nobile. Ma solo per finta. Eccola la cenere, terza e ultima parte. L’amore inizia a sgualcire. Lei, in una delle tante sere trascorse tra sorrisi e tenerezze, lo addormenta e fugge. Lui si trova con il dover pagare trenta mila lire di affitto di quella immensa e splendida villa che, evidentemente, non è della poetessa che ha sempre mentito. Il piano si fa sirena dello sconforto del pittore abbandonato e umiliato. I battiti della batteria a scemare accompagnano la lenta ed ebbra perdizione di lui che diventerà pazzo risucchiato nel fuoco fatuo della donna misteriosa. L’ultimo fotogramma vede il pittore ignoto sorridere ad una fila di origami con lo sguardo vacuo.
Si riaccendono le luci in sala. Istanti di silenzio e poi lo scroscio di applausi. Chirurghi romantici del suono loro, i Giardini di Mirò, che hanno incantato il pubblico per quasi più di due ore.
(Ringraziamo il Museo Nazionale del Cinema di Torino per la collaborazione)