L’abbiamo conosciuto qualche anno fa con il suo album Visione Cosmetica e lo ritroviamo oggi con un disco in uscita: L’impero della Luce arriverà il 13 gennaio e ci presenterà una nuova facciata di Davide Vettori. Abbiamo incontrato l’artista trevigiano che con la sua musica cantautoral-elettronica cerca di raccontarci la sua visione del mondo che lo circonda, e ne è uscita una chiacchierata passata attraverso il Veneto, Magritte e le suggestioni del numero 13. L’impero della luce è una nostra esclusiva streaming. Buon ascolto!
Non abbiamo mai avuto l’occasione d’intervistarti perciò iniziamo con una domanda un po’ scontata, ma da qualche parte dovremo pur incominciare, no? Quando Davide Vettori ha deciso che sarebbe diventato un musicista?
Certo, può sembra scontato, come se la musica fosse sempre esistita nel proprio cuore fin dalla nascita, ma a volte non è così.
Da bambino, sinceramente, non mi ponevo il problema della musica: ero (e tuttora sono) disarmonico, però picchiavo la nuca ritmicamente sul muro, con lo sconcerto della famiglia. Come se fosse una cassa dritta elettronica. Nell’adolescenza invece scrivevo, scrivevo molto, e solo dopo ho iniziato un percorso in band e progetti musicali, vagando a tentoni da uno strumento all’altro, fino a quando, intorno al 2008, ho cominciato a maneggiare synth, sequencer, groovebox e addentrarmi nella programmazione elettronica. Poi, spinto anche dalle persone a me vicine, mi sono spogliato di pseudonimi e dal celarsi dietro un cantato inglese per scrivere in lingua madre e comunicare al meglio che potevo, in modo diretto.
In Visione Cosmetica (il tuo album del 2012) sono presenti diverse collaborazioni, alcune delle quali (come, ad esempio, i Captain Mantell e Bologna Violenta) le ritroviamo anche ne L’impero della luce, album che uscirà il 13 gennaio. Ci vuoi raccontare come sono nate?
Direi che molte, come quelle citate, partono da un rapporto di amicizia e condivisione quotidiana, dove è stato naturale proporre i brani durante la stesura e realizzare le parti che vanno ad arricchire i vari pezzi. Soprattutto con Tommaso Mantelli (Captain Mantell), che già aveva seguito tutta la produzione del precedente lavoro, è stato immediato il volersi confrontare passo dopo passo nella scrittura del disco. La novità con Marco Pagot (Garage Records/Maya Galattici) alla produzione è stato un rinnovamento a livello di approccio, di gusti, di stimoli e di scelte artistiche, ed anche qui il rapporto personale schietto ha aiutato molto a creare i brani in sintonia e condividendo le scelte minuto dopo minuto.
Con Francesco Liggieri è stata un’esperienza particolare per aver scritto insieme il testo e la musica de La Canzone del Figlio Unico, lavorando braccio contro braccio per ore.
Infine, ad arricchire l’album ci sono le voci femminili di Anna Luppi (Ho anch’io un Amore) e di Angela Baraldi (Sogni nel Cassetto) registrata da Giorgio Canali. Anche queste canzoni sono state realizzate, seppure in location e tempi diversi, solo dopo aver comunque condiviso almeno un palco, un momento di relax, un bicchiere di vino.
Spiegaci questa sorta di parallelismo tra il tuo album e il dipinto quasi omonimo di Magritte.
Magritte, secondo il mio gusto, ha qualcosa di illustrativo, quasi grafico direi in alcune opere.
Quello che mi colpisce de L’Impero delle Luci è come sia riuscito a unire la freschezza e la positività di un cielo terso con l’inquietudine di una dimora al tramonto. Quest’oscurità e inquietudine però sono anch’esse squarciate da un accenno di luce, a significare che il buio, il nero non è mai totale: anche nei contesti più oscuri c’è del buono da trovare e così, anche nel pieno del giorno, esiste sempre una macchia di scuro che sporca il tutto. È come se fosse una metafora della vita quotidiana.
Mi sono ispirato a questo per simboleggiare l’unione tra la musica elettronica, semplice e diretta, ritmica come il battito del cuore e di facile approccio, con testi che invece ti fermano all’ascolto, ti lasciano ballare ma non totalmente libero da pensieri.
Per presentare L’impero della luce hai lanciato un progetto, Tre volte Tredici, che consiste nella pubblicazione di un brano (La canzone del figlio unico) il 13 novembre del 2014, un Ep rilasciato in free download il 13 dicembre del 2014 (Intermezzo) e, infine, l’arrivo de L’impero della luce, previsto per il 13 gennaio 2015. Parlaci un po’ di questo progetto, del perché è stato scelto proprio il numero tredici: una casualità dovuta alla programmazione dell’uscita dell’album o ci sono altri motivi alla base?
Non è casualità, anche se per certi versi i piani sono cambiati in corsa: inizialmente l’idea era quella di pubblicare tutto il disco il 13 novembre, anche in occasione del mio 33esimo compleanno. Poi, focalizzando meglio i brani, mi sono detto, anziché far uscire dei singoli o remix in periodi “a caso”, appunto, di fare qualcosa di più corposo e magari duraturo nel tempo. Distendendo le uscite in tre mesi è stato in primis un piacere personale, nel curare gli artworks, le pubblicazioni e le collaborazioni con gli artisti che ad esempio hanno realizzato i remix.
Non ho ancora capito se il 13 porti bene o male né se io sia superstizioso o meno: quello che so di sicuro è che un numero che mi è stato assegnato, e col tempo lo apprezzo e ne sono affezionato.
Una settimana dopo la pubblicazione dell’album, uscirà anche il video clip del brano Sogni nel cassetto, che vede la collaborazione di Angela Baraldi. Ci puoi dare qualche anticipazione, raccontarci un po’ il videoclip?
Data l’ispirazione originaria a Magritte nel disco, per il videoclip ho pensato a una storia che prendesse spunto da un’altra opera dello stesso artista. A livello visivo, sono state riprese le sembianze dei protagonisti dell’opera Gli Amanti e la storia racconta un momento di questi due personaggi, chiusi nelle loro sembianze anonime, quasi non umane, e nella narrazione del rapporto quotidiano di disinteresse reciproco, di segreti tenuti nascosti, fino a quando…
Dei nove brani che compongono la track-list de L’impero della luce, ce n’è uno che pensi rappresenti al meglio il tuo lavoro?
Questa è la domanda più difficile!
Ci ho pensato, molto, ma credo di essere affezionato a tutti i brani, perché personalmente in ognuno ci vedo una storia e non saprei sceglierne uno piuttosto che un altro. Probabilmente, a livello di stile, ritengo che Il mio Amico sia rappresentativo per l’unione di un loop semplice e ossessivo, il riff di basso elettrico suonato da Marco, le parti di vocoder e il testo che racconta varie fotografie di vita: qui ho riunito tutti gli strumenti e il sound presenti nel disco.
Anche tu, come molti artisti di cui ci siamo occupati di recente, sei veneto, della provincia di Treviso per essere precisi, stando alla tua biografia. Secondo te, c’è una motivazione per questa concentrazione di creatività nella tua regione? Che non sia una sorta di tentativo di fuga da un certo tipo di realtà?
Sicuramente una via di fuga da questa realtà o anche una semplice descrizione della realtà che qui ci circonda esiste, per me come per molti artisti di questa terra.
Come ho scritto anche in verso di Sogni nel cassetto, questa terra è dura e cruda come il cuoio. Non è facile vivere qui, così come non è facile partire da qui e cercare di portare la propria arte altrove, ad esempio a Roma o Milano. Il positivo però c’è e, in mia opinione, è anche grazie alle nostre tradizioni: siamo un popolo che è stato abituato alla durezza e conseguentemente alla perseveranza. Accade nel lavoro dei “vecchi”, ma secondo me anche in tutti coloro che creano e si danno da fare, facendo fatica, ma avendo quella scintilla, quel fuoco interiore che ti spinge a insistere, a perseguire l’atto creativo con tenacia, anche e soprattutto quando l’inverno e la nebbia ti gelano il volto e le mani, quando magari sarebbe più semplice tornare a casa e starsene al caldo con le mani in mano.
Per finire, voglio chiederti se ti va di indicarci cinque brani non tuoi che hanno contribuito a formare il tuo sound e magari darci una motivazione per ogni pezzo.
Ad elenco, così come mi vengono i primi 5, anche se sarebbero molti di più!
L’ultima Luna – L. Dalla: un brano che mi sono permesso anche di reinterpretare. Mi ha segnato da bambino dal mangiacassette di mio padre perché era un racconto criptico, descrittivo, mi faceva sognare e aveva quella ripetizione di strofe che successivamente mi ha richiamato i loop della musica elettronica.
The Robots – Kraftwerk: la perfezione dei suoni, la trama ossessiva dei sintetizzatori, i primi bagliori di una nuova era della musica.
La Canzone del Padre – F. De Andrè: per la simbologia, la narrazione descrittiva e reale del testo, zeppo di visioni, di riferimenti, di punti oscuri da scoprire.
No Time No Space – F. Battiato: un esempio, una tra le tante sue canzoni, per la sperimentazione, l’azzardo, i suoni, i testi, l’elenco di motivazioni e di brani sarebbe infinito.
Closer – Nine Inch Nails: le distorsioni, la consequenzialità di riff e suoni che mi hanno fatto avvicinare all’elettronica.