Ci sono poche cose più odiose di perdere un file, un testo. Cancellato, disperso in una fredda steppa di icone. Chissà se ci sarà un paradiso per i file cancellati. Cose c’è oltre il “cestino”? Amen.
Per quanto provi ancora rabbia di aver perso il testo che avevo scritto dopo il concerto dei Vessel, lo stesso ricordo sfuocato di quella serata mi ammonisce: i dolori veri per una perdita sono ben altri. Possono essere causati dalla perdita di familiari legati da chimica e genetica, oppure possono essere per via di quei familiari diversi, quelli che un esame del DNA non può rivelare ma che di certo hanno modificato il fluire del nostro sangue, il suo bollire. Come Lou Reed.
Quella sera al Freakout di Bologna tutto suonava di lui.
Il locale era piccolo, brutto, e lo scarico del cesso era rotto. Scuro, molto scuro, con solo qualche faretto ed una rumorosissima macchina per il ghiaccio al bancone del bar. Ora mi viene da pensare che a lui sarebbe piaciuto parecchio, forse.
Quella sera i Vessel di Corrado Nuccini ed Emanuele Reverberi hanno portato sul piccolo palco del locale un concerto che ha celebrato l’arte creata da quell’uomo con il cranio squadrato, il volto con la pelle sgualcita ed il cuore livido. Ad accompagnare i due emiliani sul palco c’erano per l’occasione altrettante donne splendide: Angela Baraldi al microfono e Beatrice Antolini alla batteria.
Il progetto Toxic Love portato in giro dai Vessel & Co. era nato già da diverso tempo, ben prima della morte di Lou Reed: celebrazione vera, sentita ed appassionata, libera dalla foga dei necrologi e della insolita presenza dell’artista newyorkese addirittura tra le immagini dei tg nazionali.
Come tutte le azioni artistiche veramente celebrative, anche in questa non c’è stata mera esecuzione, bensì rielaborazione. I brani più famosi di Velvet Underground, Nico e Lou Reed sono stati riportati in musica con un piglio assolutamente personale e sincero, a dipingere uno scenario tanto vario quanto efficace nella sua messa a fuoco.
Nell’esecuzione dei Vessel non c’era la vibrante necessità di un’urgenza straziante o ruvida, non c’era acidità o cinismo; in quelle versioni dei brani che hanno orbitato intorno alla figura di Lou Reed c’era la ricerca dell’essenzialità quieta, dell’anima forse. Questo è ciò che ricordo. Certamente non sono mancati picchi di tensione sonora ed emotiva (la toccante voce di Angela Baraldi ne è stata vera artefice) ma tutto si è svolto ad un livello di coinvolgimento dettato da una sporca eleganza e complicità sul palco. Un feeling umano votato a qualcosa di superiore. La chitarra leggera di Nuccini alternava il passo al violino di Reverberi, e tutto il resto intorno, semplice e perfetto.
Femme fatale, Sunday morning, Run run run, Chealse girls, Perfect Day (intonata magnificamente da una Antolini capace di portare su un mondo parallelo il brano e con esso il locale intero), Walk on the wild side, Waiting for the man, un’azzeccatissima The End (The Doors, con una profondissima e potente Baraldi a svegliare tutti i brividi del mondo lungo le nostre schiene), Heroin, I’ll be your mirror e sicuramente altro che ora ho dimenticato.
Dimenticare fa bene. A volte. Nella speranza che cervello e cuore siano sufficientemente oliati e funzionanti, dimenticare consente di ricordare meglio ciò che davvero serve. L’essenziale. Pazienza se non ricordi il testo preciso di Walk on the wild side, ma guai a te se non la sai fischiettare. Quella melodia continuerà a farti venire i brividi sempre. Di quello hai bisogno, del brivido.
Forse è stato un bene anche perdere quel file, fanculo. A distanza di quasi tre mesi da quella giornata mi accorgo ora che tanto della sera, invece, è rimasto aggrappato a me. Così inizio a fischiettare, ringraziando tutte le cose che ho dimenticato, che ho perso, che ho abbandonato per lasciare un po’ di spazio per Lou ed i bravi Vessel.
Gallery fotografica di Emanuele Gessi