Il 2016 è stato un anno maledetto. Non aggiungiamo altro, al bando la retorica del coccodrillo.
Siamo in Inghilterra nel 1970, il 20 novembre tre alfieri della nascente scena progressive, fuoriusciti da altrettante formazioni, Nice, King Crimson e Atomic Rooster, pubblicano un album di esordio destinato a lasciare il segno.
In un altra vita Greg Lake avrebbe potuto campare di rendita per aver dato voce, e basso, a un album epocale come In the court of the Crimson King, uscito il 10 ottobre del ’69, ma già pochi mesi più tardi la band di Fripp è al collasso. L’apparente placida dimensione d’orchestra da camera crepuscolare che anima la gran parte dei brani dell’esordio cede rapidamente alle derive schizoidi del leader che non vuole condividere con nessun altro la direzione artistica del progetto.
Gli stessi Nice sono ormai al capolinea. Con Ars longa vita brevis (novembre 1968) il gruppo si riduce da quartetto a trio ed Emerson, che ne diventa l’indiscusso leader, prova a superare l’iniziale ingenuità beat e la psichedelia naif, talvolta accostabile a Zappa (Happy freuds) ma priva della necessaria follia. Virtuoso dei tasti Keith si concentra sul suo estro strumentale di compositore e improvvisatore piuttosto che di songwriter, ma i primi esperimenti con la musica classica, tra cui il riarrangiamento della Karelia suite di Sibelius, non ricevono l’adeguato supporto dei compagni, specialmente per le limitate capacità vocali di Lee Jackson. Lo stesso fraseggio di Emerson diventa spesso prolisso e smarrito. Anche il progetto Five bridges (ottobre ’69) di stampo quasi esclusivamente orchestrale fatica a trovare una direzione precisa e i diversi elementi classica, jazz e rock, già di qualità disomogenea, non si fondono in qualcosa di veramente nuovo.
A fine anno i King Crimson condividono coi Nice il palco del Fillmore West. Lake ed Emerson si incontrano durante un soundcheck e iniziano a improvvisare su una trama jazz, è la scintilla di una nuova avventura.
Naturalmente Fripp, già orfano di McDonald e Giles, non accetta di buon grado la fuoriuscita dalla band anche di Lake e lo convince a cantare in tre brani del secondo e meno riuscito album in lavorazione, In the wake of Poseidon, tra cui il singolo Cat food in uscita il 13 marzo 1970. Due settimane più tardi il New Musical Express annuncia la nascita di un nuovo gruppo.
Lasciate le rispettive formazioni Lake ed Emerson cominciano la ricerca di un batterista per completare la line up. Considerano molte opzioni tra cui Jon Hiseman dei Coliseum, Ginger Baker dei Cream e Mitch Mitchell della Jimi Hendrix Experience. Mitchell è il primo drummer ad essere contattato e ciò diffonde in breve tempo rumors di un possibile conivolgimento dello stesso chitarrista di Seattle. La scelta cade invece sul ventenne Carl Palmer, ma la stampa Britannica continua a fantasticare, inventando persino una possibile ragione sociale HELP (Hendrix, Emerson, Lake & Palmer). E in quel caso avremmo davvero avuto bisogno d’aiuto, ma il corto circuito con Hendrix non ha mai avuto luogo, incrementando spiacevolmente il ventaglio delle opportunità sfumate, come l’incontro con Davis, che all’alba del nuovo decennio avrebbero sovvertito la storia della musica.
All’epoca dell’ingaggio Palmer, già membro dei Crazy world of Arthur Brown, milita proficuamente negli Atomic Rooster assieme all’ex compagno di squadra Vincent Crane. L’organo di questi eredita il denso soul malato di Brown, ma il canto di Nick Graham non ne eguaglia la follia demoniaca. Il sound del trio base si arricchisce di tinte hard con l’aggiunta della chitarra hedrixiana di John Du Cann, ma si assesta su una linearità un po’ statica per quanto compatta e grintosa. Anche Carl ha bisogno di stimoli nuovi.
Così gli ELP cominciano a provare all’Island Studios a Londra, in giugno, con materiale Nice e King Crimson tra cui Rondò e una versione da far rabbrividire di 21st Century Schizoid Man, tanto fragorosa da suscitare le proteste delle sale vicine, racconta Chris Welch del New Musical Express.
Dopo l’esordio alla Plymouth Guildhall, la band si presenta il 29 agosto, senza neanche una pubblicazione all’attivo, sul palco del Festival dell’Isola di Wight. È un successo immediato, garantito dall’Hammond e dal Moog di Emerson, dall’alchimia del trio, dai pezzi forti dei Nice e la classica al vetriolo di Pictures at an Exhibition, il tutto sancito clamorosamente da colpi di cannone a chiusura del concerto.
Il pubblico è già conquistato, gli manca soltanto un album da girare sul piatto e l’attesa non dura molto.
Un basso distorto che ondeggia tra i canali stereo ci catapulta in medias res, come in una jam che va avanti da ore su cui si apra una finestra inattesa, inizia così l’album di esordio del supergruppo britannico che ha segnato forse più di ogni altro il corso del progressive, una stagione straordinaria di sperimentazioni ambiziose, fissando nello stesso tempo un modello che a lungo andare ha decretato il fallimento dei suoi più valorosi artefici, spazzati via dal nichilismo anarchico del punk e dalla facilità della disco.
The Barbarian è un arrangiamento in chiave rock della composizione per solo piano di Béla Bartók Allegro Barbaro del 1911, una sequenza irregolare basata su scale e temi balcanici con interruzioni che accentuano il tono inquietante delle dissonanze dei toni gravi. Gli ELP la rallentano, celando la derivazione folk, e affidano alla batteria di Palmer il compito di frantumare passaggi e accordi con una ritmica mutevole, squassata e fremente, che martella, colpisce con raffiche, esplosioni o tiri di precisione, si arresta o accelera offrendo la versione percussiva del moto lunatico di Bartók. Nella parte centrale si gioca invece sulla velocità di una rullata leggera e continua mentre basso e piano si rincorrono come eliche di girandola o piuttosto di un girone infernale che si scatena nel finale furioso.
Un plettro lieve come soffi di brezza sfiora le corde di un piano a coda per introdurre Take a Pebble di Lake, un monumento al virtuosismo pianistico di Emerson, un’improvvisazione modale su un fraseggio ostinato di maestosa decadenza. Just take a pebble and cast it to the sea, la voce di Lake ipnotizza non appena si dischiude la bocca, calda di passione, roca di liquore, ebbra di abbissi marini, di languidi abbracci. Ci immergiamo in quel mare rossastro e discendiamo nella grotta disegnata dall’acustica liquida di Lake che riverbera con note pure e nitide come gocce d’acqua il suo quieto fraseggio folk. L’ampia sala è dimora di un essere mitico, eterno, che si ridesta dall’ozio guidando una danza incalzante, svelando la presenza della sua corte festosa, che applaude divertita, lo guarda in silenzio arpeggiare il suo strumento magico fino allo squillo di commiato. Il piano di Emerson ci raccoglie dalle profondità in una risalita scintillante tra le moltitudini marine che guizzano via. Il trio si ricompatta in superficie per un’improvvisazione jazz che segue il moto increspato delle onde mentre guadagniamo lentamente la costa, dove ascoltiamo l’ultimo disperato grido d’amore di Lake (Disturbing the waters of our lives, of our lives, of our lives) che squarcia le membra come un arpione infuocato.
Knife-Edge prende spunto dal primo movimento della Sinfonietta di Leoš Janáček (1926) e la stravolge in un riff hard blues, ne semplifica la struttura in una terna di accordi funzionale alle dotte improvvisazioni di Emerson che nel mezzo di un vortice rock infila con disinvoltura l’Allemande di Bach, primo movimento dalle Suite francesi in Re minore, come aprendo il sipario di un grottesco teatro delle marionette dal quale veniamo risucchiati in un’altra dimensione come in un film di fantascienza. E anche Lake dà prova di graffiante versatilità vocale, in affondi ruvidi e granitici senza l’ausilio delle efficaci distorsioni già messe in campo coi King Crimson.
The Three Fates (Clotho – Lachesis – Atropos) è una suite scritta da Emerson articolata in tre movimenti dedicati ciascuno alle dee greche del destino, le Moire. Lo stame della vita filato da Cloto prende vita nel suono corposo e grave dell’organo a canne della Royal Festival Hall di Londra, arcano incanto della creazione ma anche solennità forzata dei peplum che sottolinea ironicamente il soggetto mitologico. Un espediente che evita con sapienza il pericolo di una tronfia magniloquenza, pericolo sventato da un paio d’anni prima da Zappa col suo spirito dissacrante chiedendo a Don Preston di eseguire su un altro solenne organo londinese, quello della Royal Albert Hall, addirittura Louie Louie (Play it loud!). Il filo della vita passa dalle mani di Cloto in quelle di Lachesi che lo avvolge sul fuso del destino, stabilendone la durata sulle note ariose di un’improvvisazione pianistica di modulazioni classiche, rapsodie gershwiniane, arpeggi funambolici, crescendo maestosi e tenui romantici fraseggi e ritorni. L’organo si fa di nuovo avanti per annunciare il mistero della morte, l’arrivo di Atropo che recide con lucide inflessibili cesoie il filo dell’esistenza. E la drammatica quanto inesorabile fine della vita si traduce in inquietanti incursioni pianistiche in 7/8 accompagnate dal ritmo ossessivo e allucinato di Lake e Palmer, da folli sequenze in 4/4 che rendono il brano poliritmico con accordi tremuli nel registro alto che anticipano il lungo assolo esotico di Aladdin Sane.
Basso e Clavinet si rincorrono in uno strano contrappunto da lunatico hard bop nella prima parte di Tank preparando con cura il terreno per lo scatenato assolo di Palmer. La fremente energia, il vigore dei colpi assestati, l’estro delle varianti, degli accenti mutevoli cancellano del tutto il ricordo dell’analogo solo di Davidson in Ars Longa. Palmer supera anche sé stesso ampliando un canovaccio già in parte sperimentato con gli Atomic Rooster, ed è il necessario completamento delle idee di Emerson che altrimenti avrebbe rischiato di smarrirsi tra i suoi numeri pirotecnici. Pare quasi di vederlo, Keith, fissare lo sguardo imbambolato sulle bacchette rullanti mentre pensa sospirando ma dov’eri? E infatti nel finale si diverte a modulare riff sul ritmo frazionato del rullante per un solo inerpicato di acuti pungenti. Potrebbe anche bastare ma il contratto impone due facciate da 21 minuti, così Lake tira fuori un ricordo dei suoi dodici anni, una dolce ballata acustica, Lucky Man, di disarmante semplicità, ritornello corale e appeal radiofonico che garantisce un successo di vendite al singolo. La morbida scala pentatonica dell’assolo di chitarra elettrica, eseguito dallo stesso Lake, è un modello imprescindibile per molti chitarristi degli anni ’70 a partire da David Gilmour, ma il brano si impone nel genere prog per l’intervento finale del Moog di Emerson (come non pensare in Italia a Impressioni di settembre). Pare che il musicista non sapesse neppure di essere registrato quando ha iniziato a improvvisare sui tasti trasportando l’innocuo folk adolescenziale sugli scenari futuribili di un pianeta inesplorato. Buona la prima, in tutti i sensi.
Credits
Label: Island / Atlantic / Manticore
Line-up: Keith Emerson (Hammond organ, piano, clavinet, pipe organ, Moog) – Greg Lake (vocals, bass guitar, acoustic and electric guitars) – Carl Palmer (drums, percussion)
Tracklist:
- The Barbarian
- Take a Pebble
- Knife-Edge
- The Three Fates (Clotho – Lachesis – Atropos)
- Tank
- Lucky Man
Link: Sito Ufficiale, Facebook