Home / Recensioni / Rock Bottom – Robert Wyatt

Rock Bottom – Robert Wyatt

Robert Wyatt Rock Bottom…But I can’t understand the different you
In the morning when it’s time to play
At being human for a while
Please smile
(Sea song)

È il primo giugno del 1973, c’è una grande festa per il compleanno di June Campbell-Cramer nella sua villa londinese a Maida Vale. Robert Wyatt confida alla sua compagna, Alfreda Benge, di sentirsi felice, benché reduce da due fuoriuscite da altrettanti gruppi, Soft Machine e Matching Mole. Ubriaco fradicio o tentato suicidio (chi può dirlo?) vola giù da una finestra al quarto piano, atterrando su un tallone. Schiena spezzata, paralisi degli arti inferiori, solo la grande quantità d’alcool ingurgitata impedisce al corpo di irrigidirsi per l’urto, salvandogli la vita. Ma la sua prima vita è ormai finita, costretto in un letto d’ospedale per i successivi sei mesi, ormai paraplegico, Robert sa bene che non potrà più suonare la batteria, non con le gambe. Non per questo si abbatte, alla madre dice ridendo “non preoccuparti, sono sempre stato pigro da fa schifo“. Trascorsi i primi tre mesi a fissare il soffitto, appena gli consentono di muoversi nota un pianoforte verticale in una sala comune dell’ospedale: è la svolta, d’ora in avanti si dedicherà principalmente a comporre e fare musica con voce e tastiere, iniziando su quel piano di fortuna a lavorare alle bozze germogliate durante il soggiorno invernale a Venezia, dove Benge lavorava come responsabile del montaggio del film Don’t look now (in italiano un improbabile Venezia… un dicembre rosso shocking), thriller di Nicolas Roeg con Julie Christie e Donald Sutherland, col senno di poi triste premonizione della tragedia estiva occorsa al batterista. Il mondo della musica si mobilita per dargli una mano, John Peel chiede ai suoi ascoltatori di inviare cartoline che lui girerà a Robert, i Pink Floyd gli donano l’incasso di due concerti tenuti in suo onore, lo stesso Mason si rende disponibile come produttore del disco solista che Wyatt inizia a immaginare come un surreale viaggio nei fondali marini, rappresentati con piglio naif dalla stessa Benge nel delicato disegno di copertina: “negli abissi ci sono cose strane e bizzarre quanto quelle che immaginiamo su Marte e musicalmente il mio orizzonte pareva sempre più subacqueo”, dichiarerà Wyatt tempo dopo. La costrizione, in un letto poi su una sedia a rotelle, offre a Robert l’opportunità di rivedere radicalmente il suo modo di essere un musicista, di trovare un nuovo modo di dar corpo ai suoni che “vede” nella sua mente, disegnando un paesaggio sonoro senza precedenti, benché l’approccio tecnico alle tastiere, che Robert non è in grado di suonare col virtuosismo dei suoi idoli jazzisti o di ex compagni di band come Mike Ratledge, sia dichiaratamente ispirato dallo stile modale e visionario di Richard Wright. Certamente Wyatt non può far tutto da solo, ma la sua particolare condizione gli suggerisce anche l’idea di non fondare una vera e propria band che possa poi riprodurre i brani dal vivo, selezionando i musicisti in base alle esigenze dei singoli brani. Conosciuti nella grande orchestra progressive Centipede, radunata da Keith Tippett con la complicità di Robert Fripp in veste di produttore per il doppio album Septober energy (Neon Records, 1971), Wyatt richiama l’esule sudafricano Mongezi Feza alla tromba e Gary Windo al sassofono e al clarinetto basso, dopo aver tentato  invano di mettere su insieme una band, i Symbiosis, mai approdata su disco. Ai due fiatisti viene chiesto  qualcosa di molto diverso dal free jazz dal quale provengono, ma forse anche più dirompente e inusuale. Le parti di basso vengono equamente divise tra Richard Sinclair dei Caravan, già in squadra con Wyatt ai suoi esordi coi Wilde Flowers, e Hugh Hopper al suo fianco in quell’esperienza e in seguito nei Soft Machine. Due chitarristi vengono coinvolti con compiti diametralmente opposti: Mike Oldfield, forte del successo di Tubular Bells (Virgin, 1973), per un assolo lisergico e Fred Frith per un bordone di viola ancestrale. Il canto è risolto dalle metamorfosi vocali di Wyatt, ma altre due voci “narranti” segnano passaggi cruciali, quella di Alfie Benge e del poeta Ivor Cutler. La scelta più difficile, visti i presupposti, è probabilmente quella del batterista, ruolo che Robert affida senza rimpianti a Laurie Allan dei Gong. Insomma, c’è il meglio della scena di Canterbury e dell’avanguardia britannica degli anni ’70. E allora ci si immerge subito nelle profondità marine con Sea Song, nuotando lentamente sull’intreccio di piano dolente e organo Riviera, tastierina di sole tre ottave che colora le acque abissali come sinuosi bagliori boreali, facendo buona parte del sapore dell’album. Il tema acquatico si dispiega in eccentrica dichiarazione d’amore “You look different every time / You come from the foam-crested brine / It’s your skin shining softly in the moonlight / Partly fish, partly porpoise, partly baby sperm whale“. Tra le due strofe di dolorosa tenerezza l’assolo di piano di Wyatt cammina in equilibrio sul filo di lama dell’inquietudine, ossessionato dalla follia: Your madness fits in nicely with my own, with my own / Your lunacy fits neatly with my own, my very own. Ma l’angosciosa tastiera del coro finale si rischiara con la luminosa presa di coscienza che We’re not alone, trampolino per l’ultimo solo di vocalizzi altalenanti, singhiozzi strozzati, grida sussurrate, sospiri e carezze che svaniscono pian piano nel blu profondo dell’oceano. Il basso fluido di Hopper conduce l’intro jazz di A Last Straw fino al martellante piano sul quale s’innalza il falsetto ebbro di Wyatt che traccia onde e risacche sul pentagramma, restando ben attaccato al fondo di roccia che dà il titolo all’album. “Seaweed tangled in our/Home from home/Reminds me of your/Rocky bottom“, mentre il suono scivola via sul leggero drumming di Allan e Robert si spalma su una chitarra slide di vetri liquefatti e luccicanti. Poi dalla fossa oceanica s’alza un muro di trombe costruito dal soffio graffiante di Mongezi Feza, mentre un nugolo di sirene e tritoni cavalca le onde in un tripudio percussivo degno dei Weather Report, incitato dalle urla di Wyatt che prepara l’ingresso di Little Red Riding Hood Hit The Road, il cui canto di balzi imprevedibili a metà strada comincia a scorrere al contrario come un’antica formula magica delle profondità marine, evocata e scacciata via a un tempo, “Orlandon’t tell me, oh no / Don’t say, oh good Godon’t tell me“, come una possessione dalla quale un eroe tragico non riesce a liberarsi, finendo risucchiato dal vortice di una tempesta. Finisce il primo lato del vinile e si riparte dal respiro di Robert che ricama un loop di battito cardiaco, Alifib, soffio vitale sul quale Hopper disegna un lacrimoso solo di basso tutto giocato sui legati del registro alto del suo strumento, di malinconica dolcezza e cremosa purezza, preludio di un secondo tema amoroso, serenata drammatica rivolta da Robert ad Alfreda che stempera il tragico fraseggio con gusto patafisico per i giochi di parole e suoni onomatopeici: “For jangle and bojangle/Trip trip pip pippy pippy pip pip land erim/Alife my larder“. Ma è la stessa Benge a replicare all’invocazione dell’amante, I’m not your larder/I’m Alife your guarder, sul finale della seconda parte della composizione, che si trasfigura nella tetra Alifie, mentre replica il testo straniante con accentuati sobbalzi, tra i fischi fragorosi del clarinetto di Gary Windo che stropicciano i residui di melodia in una discesa infernale di sofferta e irrimediabile dannazione. Dal precipizio ci si rialza ancora una volta con la forza dei giochi di parole e Cappuccetto rosso, Little red riding hood, diventa infine Robin Hood nel titolo dell’ultimo brano Little Red Robin Hood Hit The Road. Chiusura in tre movimenti, coi primi due in full band rock, stavolta con Sinclair al basso: il primo parte coi versi poco rassicuranti “In the garden of England / Dead moles lie inside their holes / The dead-end tunnels crumble / In the rain, underfoot / Innit a shame?“, lasciando il posto all’assolo raddoppiato in stereofonia di Mike Oldfield che centrifuga la nevrosi frippiana coi suoi personali esperimenti strumentali; Cant’you see them? va in loop Wyatt nella parte centrale di free rock come a invocare aiuto contro un pericolo incombente e inevitabile; infine, arriva la quiete e la viola di Fred Frith riporta tutti in superficie a passeggiare al tramonto sui prati verdi d’Albione, mentre Ivor Cutler declama con rigidità ieratica, come in trance, il testo finale che rimembra l’incidente di Robert: “I fight with the handle of my little brown broom / I pull out the wires of the telephone / I hurt in the head, and I hurt in the aching bone / Now I smash up the telly with remains of the broken phone“. Ma anche qui, mentre le note di viola sgambettano come gocce di pioggia, la follia nonsense di Carroll mette in scena la tavola imbandita del Cappellaio Matto, la fantasia che vince sulla cruda realtà: “I want it, I want it, I want it, give it to me/I give it you back when I finish the lunch-tea“. Rock Bottom è una straordinaria dichiarazione di indipendenza e volontà, che forse solo Hendrix, col quale Robert ha condiviso due tour assieme ai Soft Machine, è stato in grado di affermare con pari energia liberatoria e determinazione. L’album esce il 26 luglio del 1974, per volere di Wyatt che vuole così celebrare l’anniversario dell’inizio della rivoluzione cubana, ed è senz’altro una rivoluzione musicale che corre l’obbligo di ricordare, mezzo secolo dopo, perché non resti isolata come il piccolo stato caraibico e il suo esempio risvegli le menti addomesticate della società digitale. Oggi Wyatt affiora sempre più raramente dal suo rock bottom, ma ogni volta regala una perla rara, ora con Bjork, ora con Jeanette Lindström, con Gilmour o Mary Halvorson. Saremo sempre in attesa sulla riva, sperando che la prossima marea ce ne porti una nuova.

Credits

Label: Virgin Music – 1974

Line-up: Robert Wyatt (voce, tastiere, percussioni, chitarra slide, batteria) Laurie Allan (batteria) – Alfreda Benge (voce) – Ivor Cutler (voce) – Mongezi Feza (tromba) – Fred Frith (viola) – Hugh Hopper (basso) – Mike Oldfield (chitarra) – Richard Sinclair (basso elettrico) – Gary Windo (clarinetto basso)

Tracklist:

    1. Sea Song
    2. A Last Straw
    3. Little Red Riding Hood Hit the Road
    4. Alifib
    5. Alifie
    6. Little Red Robin Hood Hit the Road

Ti potrebbe interessare...

SAN113LP_12Dprint_

Niente di nuovo tranne te – Andrea Satta

A quasi dieci anni dall’ultima prova dei Têtes de Bois, Andrea Satta approda al suo …

Leave a Reply