L’impatto visivo dell’entrata in scena di Nick Cave e dei poderosi Bad Seeds nello spazio esatto di un secondo stravolge la prospettiva di chi assiste. E il ritmo lento di una giornata partita in sordina e strisciata via innocua fino a sera, si trasforma nel tumulto delle anime dannate, sempre in bilico tra bianco e nero, tra cielo e terra, tra la salvezza e la perdizione. Una vera furia, Nick. L’attesa divenuta probabilmente insostenibile nel back stage, col bisogno non più rinviabile di congiungersi con la sua gente, viene scaricata a terra fin dai primi momenti del concerto. Quello che succederà nelle successive due ore e mezza è effettivamente furia sì, ma incanalata dal peso del tempo, un fiume in piena vorticoso le cui rapide alternano rock, gospel, soul, momenti intimi, quasi da crooner; precipiti giù in cascata e poi riemergi in modo del tutto inatteso in acque calme e cristalline, il termine del viaggio. E lungo questo viaggio Nick è lì accanto a te, sempre col tempo giusto, durante ogni singolo minuto, a 67 anni (sessantasette!), il corpo che non sta mai fermo, neanche durante i momenti più riflessivi al piano, la voce, sollecitata di continuo e senza calcolo, sempre corposa, splendida, che non conosce esitazione. Un performer che tiene il palco in maniera unica, nato effettivamente per quello, con movenze scatti, stacchi, sguardi che non hanno nulla di artefatto. Risalgono direttamente dal profondo buio dello spirito, senza filtro, seguendo istruzioni codificate alla nascita. La massima naturalezza avvolta dalla massima eleganza. In completo grigio, giacca e cravatta, la stessa che si impone a chi condivide lo spazio sul palco con lui. I grandi schermi posti alle spalle del palco restituiscono l’immagine fiera di un uomo, colmo di orgoglio per quello che fa, per quello che dà, per quello che riceve. Lo stesso uomo tornato due o tre volte dall’al di là, rialzandosi misticamente ogni volta e riprendendo il cammino senza mai dubitare della fede. Lo sguardo insomma – almeno così mi è parso – di un uomo felice. E felici si direbbe proprio che siano stati gli oltre 10.000 del forum, anche loro ormai non più in grado di contenere l’attesa per uno spettacolo che si preannunciava sold out da mesi. Letteralmente in adorazione estatica tra le prime file, senza barriere hanno goduto del contatto fisico al cospetto del loro predicatore, in alcuni frangenti quasi impedendogli di muoversi e scatenando la sua reazione tra il divertito e il comprensivo: si ferma e lascia che per quindici secondi lo tengano per una gamba (loro per tutti quanti voi, preciserà prima di ripartire più forte di prima). A sostenerlo come sempre quei Bad Seeds che dai momenti più bui ai giorni nostri sono sempre stati al suo fianco ma tra le cui fila hanno trovato spazio altri compagni di viaggio, a partire dallo scintillante quartetto gospel che darà lustro a svariati pezzi del repertorio e che nel finale si unirà a Cave in quella che a tutti gli effetti sarà non più una serata rock ma piuttosto il tripudio della funzione domenicale in una chiesa evangelica. “Oh ma sai che il bassista somiglia tantissimo a Colin Greenwood dei Radiohead? Ah dici, beh in effetti certo è proprio uguale…”. Scopriremo stupiti che in effetti si trattava proprio di Colin. C’è poi Warren Ellis, una storia a parte. Seduto placidamente e ricurvo su se stesso armeggia con strani aggeggi elettronici; in un attimo balza in piedi su quella stessa sedia che lo accoglieva un minuto prima, lanciando strali demoniaci nell’aria, armato di bacchetta e violino. Sembra un po’ in disparte sul palco, lo senti invece sempre al centro, adorato da tutti, primo fra tutti da Nick che lo abbraccia fraternamente al culmine della serata, prima di restare solo sul palco per la chiusura.
Tanto spazio in scaletta è dedicato come giusto a Wild God, ultimo lavoro che stanno portando in giro per il mondo e a cui mostrano evidentemente di tenere molto; i pezzi che contiene si prestano benissimo del resto ad essere celebrati dall’alchimia perfetta di questo gruppo di splendidi musicisti. Il presente, ma anche il passato, in alcuni frangenti remoto, si inserisce in maniera curatissima qui e lì nel set che hanno preparato. Si torna indietro, molto indietro, addirittura ai tempi dei The Birthday Party di From Her to Eternity proposta magistralmente e apprezzatissima dal pubblico. Per non parlare di Tupelo o della combo micidiale Red Right Hand / The Mercy Seat, eseguita nella seconda parte del concerto. Non pochi poi, i pezzi eseguiti da Carnage, un lavoro che si fa davvero apprezzare dal vivo, nei suoi passaggi più cupi (pazzesca White elephant) e nei momenti di riflessione più profonda, come il pezzo omonimo che sin dalle sue prime note ti conduce in qualche modo dalle parti dell’ultimo, straziante, Bowie. Quando ormai è quasi tempo di lasciarsi, c’è spazio anche per una sensazionale esecuzione di The Weeping Song, che ho considerato un vero e proprio regalo personale, per quanto ho amato The Good Son.
Chiedendo all’intelligenza artificiale di elencare i primi 20 aggettivi che comunemente vengono utilizzati nelle recensioni dei concerti di Nick Cave and the Bad Seeds scopriamo che essi sono: Intenso Emotivo Potente Ireale (sic) Carismatico Melodico Osservante (mmm…) Drammatico Misterioso Coinvolgente Denso Ssuggestivo (di nuovo, sic) Affascinante Visionario Eclettico Apocalittico Passionale Profondo Poetico Incantevole.
Scopro non senza un certo auto compiacimento di non averne usato neanche uno.
Prendo allora a ripensare ai momenti finali del concerto, quelli di Into My Arms. Tutti i presenti all’unisono si consegnano silenti alla chiusura del rito. Lo osservano dalla platea solo sul palco, la cravatta ormai via e diversi bottoni della camicia aperti. Le prime note del pianoforte a coda scandite con maestria e dolcezza, danno l’abbrivio ad un coro spontaneo di grande partecipazione emotiva. In qualche modo immagini Nick finalmente calmo, seduto in veranda, armato solo di matita, assorbito dalla lettura… Flannery O’Connor o chissà chi… i raggi del sole a scaldarne il profilo scolpito, con quel pallore atavico e le linee del volto segnate dai tormenti di un’anima che – in maniera misteriosa – appare adesso finalmente pacificata. È il brano perfetto. Quello che ti permette di andare via in qualche modo rassicurato, sicuramente felice e appagato.
Credit Photo: Steve Parke