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Fanali @ Auditorium Novecento Napoli, 27 dicembre 2024

Fanali @ Auditorium '900 - Foto Alessio Cuccaro 00

L’Auditorium Novecento è gremito, il trio si dispone nello spazio ristretto da una selva di pedali e cavi, tablet e loop station, che circonda ciascun componente come una capsula generatrice di suoni, macchinari che filtrano l’input umano disegnando un mondo solo all’apparenza sintetico. Caterina Bianco è la prima voce, sebbene la utilizzi per slanci evocativi con timbriche che rifuggono la forma canzone, suona il violino e armeggia con le manopole della tastierina dal sapore vintage Arturia MiniLab MK II, con cui costruisce una coltre eterea e stratificata gestita dal software abbinato. Jonathan Maurano è un raro batterista che suona per più tempo all’impiedi che seduto, come commenta qualcuno in sala, mentre crea pattern di battiti scarnificati quanto difficili da contare colpendo i pad della sua Roland, ma anche in grado di mostrare la sua tecnica impetuosa alla batteria acustica, quando ne ha l’occasione, in lampi improvvisi e accelerate efficaci. Michele De Finis si divide tra un basso compassato e sornione e un’elettrica Fender Jaguar da cui tira fuori una serie di suoni visionari, grazie all’ausilio di un’affollata pedaliera usata non come tavolozza da cui prendere una varietà di colori pronti ma come serbatoio di ingredienti di una miscela dosata col contagocce, fino a trovare la formula ideale per il sound della band. La scaletta attinge in massima parte dall’ultimo album I’m in control, presentato per la prima volta dal vivo, iniziando proprio con l’invito (Come) Closer, in cui i vocalizzi di Caterina riscaldano l’algida elettronica dall’atmosfera distopica. È musica per film immaginari, come sottolineano i visual asciutti di Sabrina Cirillo, e in più di un’occasione gli spettatori chiudono gli occhi per seguire la propria visione ispirata da suoni delicati, muovendo lentamente il capo ad assecondare la lenta cadenza dei brani. Altrove il ritmo sale e ci scuote, come nelle trame strumentali di Sunday (a memory) e sul fraseggio vocale di Safe, in cui Caterina si lancia in un passionale e doloroso assolo al violino. Ed è ancora la sua voce distante a dare un sapore alla Bowie alle aperture di vapori alogeni di (Out in the) Dark e alle nevrosi urbane di Control. Le corde pizzicate e le tastiere orientali alla Sakamoto lasciano spazio sul finale di Piano alla chitarra di De Finis che pompa un riff hard-rock raddoppiato come in preda ad ossessione. Bruno Bavota li raggiunge per Slowly (a moment) suonando il pianoforte a coda, con adesivo SoundFly sul fianco, con trilli misurati e accordi larghi, in dialogo intimo col denso violino di Bianco. Verso il finale si viaggia sulle progressioni maestose di Era, dal precedente album Shidoro Modoro, e sulle stratificazioni geometriche e ipnotiche di Sequoia, dall’esordio Man with a movie camera,  il suo eterno ritorno. E allora sarà perché siamo in un luogo sacro della musica napoletana o semplicemente per ricordarci che la sperimentazione non è una fuga dalle proprie radici che il concerto si chiude inaspettatamente con una cover che è una totale riscrittura della tragedia classica napoletana di Voce ‘e notte (1903), il dramma di un amore impossibile cantato da Caterina, che qui svela tutto il suo potenziale lirico, liberando la melodia sopra gli strati sintetici dell’arrangiamento del trio. Esperimento che suggella un concerto coraggioso, per musica che costringe all’ascolto attento, proprio ciò di cui abbiamo oggi un disperato bisogno.

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