Bologna è ormai pronta a concedersi alla bella stagione, fra rossi tramonti per le strade del centro e soleggiati pomeriggi pigri. Per qualche mese anche la musica si sposterà, abbandonerà le atmosfere invernali degli storici locali bolognesi per invadere i giardini e le serate all’aperto.
Prima di conquistare (speriamo!) lo spazio urbano, però, ci sono ancora alcune succose occasioni. E così, in un altrimenti anonimo mercoledì sera, sfidiamo il vento fresco e ci dirigiamo verso l’Estragon. All’interno del “Rocker Festival”, giunto ormai alla sua quinta edizione, oggi è di scena l’America, nelle vesti del dream pop e dello sperimentalismo psichedelico dei Mercury Rev.
A distanza di tredici anni dalla sua pubblicazione, questa sera è dedicata a Deserter’s Songs: la band ripropone l’album che l’ha definitivamente consacrata al pubblico e alla critica mondiale e si confronta con il tempo intercorso in uno spettacolo che richiama sotto il palco gli appassionati storici del gruppo di Buffalo, ma anche chi, come me, li ha scoperti quando gli anni Novanta erano già finiti.
Alle 21.30 salgono sul palco i Julie’s Haircut, cui spetta il compito di avvicinare il pubblico e preparare la serata. Un set breve e mirato, quello della band emiliana, che cerca di offrire ai Mercury Rev l’innesto perfetto per il successivo live.
Una mezz’ora particolare, in cui i nostri Julie’s non si giocano al meglio le loro carte. La formazione è capace di regalare set brillanti e coinvolgenti, ma questa sera appare in qualche modo al di sotto delle proprie grandi potenzialità. Chiariamo: si tratta di una band di alto livello, il live è ricco e preciso. I brani sono incasellati in un flusso compatto, tecnicamente notevole. La scaletta, tuttavia, privilegia molto il versante strumentale, penalizzando la band in termini di coinvolgimento del pubblico. Sono più difficili da seguire, si vorrebbe abbandonarsi alle loro sperimentazioni ma si viene trattenuti dal tecnicismo. Peccato, anche se rimangono una delle nostre realtà di maggiore interesse.
Il momento dell’abbandono arriva presto, però. Poco tempo per il cambio palco e la serata si schiude al sogno. La band statunitense si appropria del palco, possiamo immergerci nelle atmosfere di Deserter’s Songs.
Il live procede lineare, seguendo la tracklist dell’album. I brani si incastrano perfettamente e il pubblico è entusiasta e partecipe. Poco spazio per saluti e parole, Jonathan Donahue è completamente assorbito dalla propria musica. Si procede seguendo il percorso del disco, tutt’altro che in linea retta però: si scivola sulle morbide atmosfere evocate dalla band, in bilico tra il ruvido del rock e il sogno di un pop che non può non richiamare alla mente Lou Reed e i suoi psichedelici Velvet Underground.
Onirici come sempre, in questo album i Mercury Rev si aprono ad incursioni jazz, a sperimentazioni di grande ricchezza melodica e strumentale. Un disco di grande impatto, allo stesso tempo non facile da presentare dal vivo: un sogno in cui il pubblico si perde tanto facilmente richiede un controllo saldo da parte della band, per non finire in deriva.
La formazione americana è compatta sul palco, ognuno al suo posto preciso. L’insieme è collaudato e funziona, grazie anche al carisma di Donahue che domina il palco e bilancia la staticità dei suoi colleghi. Protagonista della scena, il cantante padroneggia uno spazio che sembra solo suo, quasi fosse un attore che si muove sulla scena teatrale, immerso nel proprio spettacolo senza incontrare lo sguardo del pubblico.
Come in un sogno, il tempo si dilata e si muove con logiche particolari. In un momento lungo un disco intero, il live sembra concludersi, anche se rimane spazio per un pugno di brani ancora, da pescare nella ricca discografia della band. Un pugno di canzoni ancora: il sogno ad occhi aperti di In a funny way, l’emozione palpabile di The dark is rising e sulle note di Senses on fire giunge il tempo del congedo, in un’ultima, maestosa ed elettrizzante ondata sonora.
Senza voler strafare, con grande semplicità i Mercury Rev hanno portato all’Estragon melodie che da più di un decennio accompagnano i loro fans. Deserter’s Songs si misura con il tempo trascorso e dimostra di aver resistito alla polvere degli anni. La forte carica emozionale della musica è il cardine su cui poggia l’intero live. La band sembra non soffrire eccessivamente del tempo passato e conclude egregiamente un concerto che non travolge, ma lascia piuttosto uno strascico piacevolissimo nei momenti e nei giorni a venire. (Foto di Emanuele Gessi; Lost Gallery: Julie’s Haircut, Mercury Rev)
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