Ci sono dischi, canzoni, opere d’arte che passano oltre la pelle. Vanno a creare tatuaggi al contrario, dove nessuno li può vedere, nella superficie interna della pelle. Non li vedi ma ci sono. Senti anche il dolore quando ti colorano la pelle di una tinta che non conosci. Mai vedrai cosa rappresentano. Il tuo destino? La verità? Ma la verità di cosa? Ti interroghi, mentre senti il dolore, e per giorni, forse mesi, ti chiederai perchè quel disco (nello specifico, di questo ora stiamo parlando) si è voluto accanire su di te. Ti ha fatto del male, oppure del bene? Forse un giorno troverai risposta ad alcune di queste domande, ma è innegabile che questo dubbio sia estremamente affascinante, elettrizzante, straziante e splendido. Ti rotoli in questi pensieri, te li gusti. Forse c’è anche un pizzico di masochismo. Ebbene sì, ti scopri a nutrirti di questo dolore, e non è così anormale: se così non fosse buona parte dell’arte che conosciamo non esisterebbe.
The light the dead see è un album notevole, non tanto per la sua fattura quanto più per l’intensità. Nell’ascolto di questo disco non nasce lo stupore per qualcosa di nuovo, non c’è l’incanto per l’inusuale ed inaspettato accostamento di suoni e generi, nessun tipo di innovazione alberga in questi dodici brani. Strano se a realizzare questo disco sono due importanti musicisti/produttori come Rich Machin e Ian Glover, geniali menti che hanno portato, nei due precedenti capitoli, al sorprendente incontro tra la cavernosa voce di Mark Lanegan e l’elettronica. Strano anche che, proprio in questa nuova esperienza al fianco di Dave Gahan (Depeche Mode), i due abbiano deciso di sposare completamente il suono classico del rock-blues e gospel.
Questo dei Soulsavers e Dave Gahan (importantissimo il suo apporto, non solo come inteprete ma anche come autore di tutti i testi) è un album che in realtà cela in sé tante altre collaborazioni d’eccellenza: Daniele Luppi (già al lavoro con Danger Mouse), Dustin O’Halloran (Devics), Martyn Lenoble (Spiritualized), Ed Harcourt, Rosa Agostino (Red Ghost) e la voce di Mark Lanegan che proprio nella prima canzone (In the morning) ufficializza la cessione del testimone al cantante dei Depeche Mode.
Dave Gahan coglie l’occasione offerta dai Soulsavers per presentarsi con un volto quasi inedito. Intimo, profondissimo nelle liriche, versatile nel canto: lui riesce a parlare all’ascoltatore come solo un fratello può fare. L’impressione è che non possa essere solo creatività ed ispirazione; l’interpretazione è di altissima qualità, ma in qualche modo moderata. Questo senso della misura, privo di forzature drammatiche ed enfasi, fa pensare che il disco sia davvero qualcosa di importante e vivo, estremamente vero e personale. I tanti riferimenti all’amore, al passato e ad una complicata ricerca di spiritualità ben si sposano con l’immagine di un Dave Gahan ormai lontano dagli eccessi di un tempo, rendendo l’ascolto davvero toccante.
Inutile passare in rassegna ogni singolo brano in quanto in tutto il disco non si avvertono passi falsi o cedimenti: la musica scorre, con brevi salite e discese sostenute da splendidi cori e qualche arrangiamento orchestrale.
The light the dead see è un disco che giunge all’anima ancor prima che all’orecchio. Poi si perde sotto pelle, e da lì, non se ne va più via.
Onore quindi a Dave Gahan per aver accettato una sfida tanto complessa ed averla superata così brillantemente, ma tanto merito va dato anche a Rich Machin e Ian Glover che hanno saputo mettersi in disparte e creare un fondo ideale e perfetto per illuminare ancor di più il genuino protagonismo di Gahan.
The light the dead see è un inno alla bellezza, all’eleganza e alla complessità dell’anima, ma forse ancor di più all’ispirazione, quella più profonda, quella che non inventa, ma crea.