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Le meraviglie dell’eclettismo e della non stabilità: intervista a Luca Giovanardi (Julie’s Haircut)

Freschi di pubblicazione dell’EP The Wildlife Variations, i Julie’s Haircut si stanno ora preparando al prossimo disco. Con Luca Giovanardi parliamo del passato (loro), del presente (musicale), del tempo che passa (per tutti). E il futuro? Non stabile. (Johannes è in streaming autorizzato; si ringrazia SferaCubica per la collaborazione

The Wildlife variations è un ep di quattro brani in una ventina di minuti. Schematizzando estremamente, si sceglie la pubblicazione di un ep rispetto ad un album principalmente per tre possibili motivi: urgenza “commerciale” di pubblicare del materiale, urgenza artistica di pubblicare un mini-album slegato dalle altre produzioni, voglia di “ingolosire” il pubblico anticipando qualcosa del prossimo disco. Escludendo a priori la prima, spiegateci la vostra scelta.
Perché escludi la prima ipotesi a priori, scusa? Abbiamo davvero un’immagine così austera e intransigente visti da fuori?! La verità è che da mesi – per non dire da anni, visto che alcune tracce di registrazione risalgono al 2009 – stavamo lavorando in studio a nuovo materiale, pensando ad un nuovo album. Per pura contingenza siamo rimasti privi di una sala prove per diverso tempo e quindi avevamo modo di fare cose nuove solo quando ci vedevamo in studio di registrazione al Bunker. Ci siamo trovati in questa situazione un po’ paradossale in cui avevamo la possibilità di registrare ma non di provare con la dovuta tranquillità. Per cui le cose che ne sono scaturite avevano un feeling molto “da studio”, troppo freddo nella maggior parte dei casi per soddisfarci. C’erano tuttavia queste quattro cose che ci piacevano molto. Sapevamo però che ci sarebbero voluti mesi prima di poter aggiungere altro materiale all’altezza, con le caratteristiche che volevamo, per cui le alternative che ci si presentavano erano due: tenere questi pezzi parcheggiati su nastro per poi affiancarli a quello che avremmo partorito da lì in poi, oppure pubblicarli subito. Abbiamo scelto questa seconda soluzione, perché da un lato ci piace l’idea che il disco rappresenti un periodo ben specifico della nostra attività, dall’altro questa mossa ci ha aiutato a resettare il cervello in vista del lavoro su quello che sarà il prossimo album, ci ha costretti in qualche modo a ripartire da zero a mente fresca. Ora abbiamo una sala prove e stiamo scrivendo nuovo materiale in maniera un po’ più organica e naturale. In ogni caso io vorrei anche sottolineare che in un’epoca in cui la musica viene consumata in pillole, scaricata in digitale, ascoltata in modalità shuffle, non ha veramente più senso considerare un EP o un singolo come un’uscita “minore” o propedeutica verso altro. Sarebbe davvero ora che si tornasse a considerare queste uscite di breve durata come espressioni dotate di una propria dignità. Forse l’unica cosa positiva del consumo digitale di musica è la possibilità di ridare importanza al concetto di singolo e di EP.

Questo ep offre una gamma sonora molto vasta, ma comunque ben orientata. Il disco è anche molto diverso dal precedente album, ma trovo comunque qualche legame con Our Secret Ceremony: come si è arrivati a The Wildlife Variations?
Non lo so, a me pare una naturale prosecuzione di quello che abbiamo fatto negli ultimi anni, senza esserne una ripetizione. Cerchiamo sempre di rinnovarci, pur avendo ormai acquisito una nostra personalità, un suono che ci contraddistingue.

In questo EP noto più profondità, minore intensità, più ricerca, meno volume, ed è così anche nei live. Quantol’età (non siete adolescenti) e gli eventi della vita vanno ad incidere sull’espressività artistica. Quanto, sotto questo aspetto, il passare del tempo vi ha tolto e cosa, invece, vi ha donato?
Ogni età ha il proprio respiro, il proprio passo e in quanto musicisti dobbiamo esprimere questi cambiamenti con onestà nella nostra musica. L’urgenza espressiva che abbiamo ora sicuramente ha modalità diverse di quella che avevamo a 20/25 anni. Credo anche che questo sia un aspetto meraviglioso dell’esprimersi artisticamente e anche della vita in genere. La non stabilità, la possibilità di mutare nel tempo. Mi fanno tristezza quei gruppi sempre uguali a se stessi, che a 45 anni continuano magari a fare i punk imbolsiti anche se la loro vita è ormai tutt’altro. Il discorso non vale per tutti, non voglio generalizzare, perché ci sono persone che effettivamente rimangono – con onestà – uguali a se stesse per tutta la vita. Ma per me… mi annoio solo a pensarci.

La vostra carriera è lunga: si può fermarla con delle istantanee? Per ogni vostro disco c’è un’immagine, opera, parola, evento che riuscite ad abbinargli? Volete provarci?
Le copertine dei dischi credo stiano lì per quello, no? Pensa che io ho una memoria talmente deficitaria e confusionaria che spesso per collocare gli eventi della mia vita faccio ricorso all’anno di uscita dei nostri dischi. Non so quando è successa quella deterimanata cosa, ma magari so che in quel periodo ero in tour per Adult Situations, quindi doveva essere il 2003 o il 2004. Comunque il gioco pare divertente, io ci provo.
Fever in the funk house (1999): entusiasmo
Stars Never Looked So Bright (2001): voglia di superarsi
Adult Situations (2003): sensazione di essere vicini alla fine di qualcosa e speranza che sia anche l’inizio di altro, un certo smarrimento
After Dark, My Sweet (2006): senza rete
Our Secret Ceremony (2009): una nuova consapevolezza

Come dicevo, il vostro suono è molto vario e contaminato ma ritengo che abbia poco senso ad oggi discutere delle vostre influenze. Vorrei piuttosto chiedervi come viene vista questa vostra “apertura” dall’ambiente musicale (etichette, locali, pubblico): ora pare che vadano per la maggiore i giovani cloni e “l’usato sicuro”. Vi ha mai creato difficoltà questa vostra “non catalogabilità”? Notate differenze tra l’Italia e l’estero?
È sicuramente un problema, dal punto di vista della “collocabilità del prodotto”. L’eclettismo non aiuta, in questo senso, anche perché noi siamo eclettici veri, non come gli eroi del cosiddetto “crossover” che alla fine si è rivelato un genere estremamente codificato e chiuso. Per ascoltare i Julies ci vuole una testa bella aperta, non è roba per tutti e ce ne rendiamo conto. Ma d’altra parte noi siamo così, anche come ascoltatori. A me piace sottolineare l’attitudine con cui ci si approccia alle cose, il resto mi interessa meno. Per dire, a un certo punto noi ci siamo messi in testa che anche un gruppo di impronta rock può fare musica ispirandosi alle metodologie produttive di Miles Davis e Teo Macero e ci abbiamo provato. Oggi il mercato è ristretto, si sviluppa in nicchie e le nicchie hanno bisogno di una forte riconoscibilità. Noi siamo assolutamente incollocabili, in questo senso. All’estero non è che sia molto diverso, anche se c’è una sorta di scena “prog” nella quale in qualche modo rientriamo. Ma all’estero la parola “prog” ha un’accezione molto meno ristretta che da noi, indica tutto ciò che va dalla neo-psichedelia all’elettronica più sperimentale, tutto ciò che ha una certa componente di ricerca ci sta dentro in qualche modo. Qui da noi si tende ad identificare il progressive con forme barocche e tecnicismi, quindi nulla di più lontano da noi.

Leggendo qualche altra recente intervista ho notato che non vi sbottonate molto sul prossimo disco… magari sono fortunato e avete voglia di parlarne un poco senza che io chieda nulla…
Non è questione di non volersi sbottonare, è proprio che se anche nessuno di voi ci crede, incluse le nostre etichette, la nostra agenzia e il nostro ufficio stampa (che credo non VOGLIANO crederci), noi davvero non abbiamo idea di come sarà.

Di recente avete partecipato alla rassegna Festival della Filosofia con una vostra particolare esibizione. Cosa c’entrano i Julie’s Haircut con la filosofia? Come è stato impostato questo live?
C’entriamo sicuramente di più dei Soliti Idioti – per dire – che erano gli ospiti principali. Almeno io e Nicola siamo laureati in filosofia. Non credo ci si debba fare troppe domande sui programmi di questi eventi. Comunque è stata una bella serata, al di là delle nostre aspettative. Abbiamo preso alcuni nostri pezzi, li abbiamo ridotti ai loro elementi essenziali e poi li abbiamo “ricostruiti” in forma nuova partendo da questi elementi, quindi suonandoli in versioni diverse dal solito, quasi esclusivamente strumentali e lasciando largo spazio alla possibilità di improvvisare. Il giorno stesso, senza nemmeno provare, abbiamo coinvolto Deborah Walker al violoncello. È una musicista fantastica con cui abbiamo già suonato in altre occasioni e che si è inserita a meraviglia nel nostro tessuto. Abbiamo anche proposto un pezzo nuovo, Europa X, che sarà contenuto nel prossimo album.

Johannes – Streaming

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