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Ghost on ghost – Iron & Wine

Settimo disco per il progetto di Samuel Beam, quell’Iron & Wine che da una decina di anni riesce ad incantare fan disseminati in tutto il mondo con le sue melodie di stampo folk.
Cerchiamo però di essere onesti: sette album folk dal 2002 al 2013 sono impossibili da fare, non avrebbero senso, apparirebbero testardi, ottusi, ripetitivi, e finirebbero nella completa inespressività. Forse è anche per questo motivo che Samuel Beam già da qualche tempo ha allargato il suo campo, anche al costo di trovare schiere di storici fan delusi per via delle nuove strade intraprese.
Con questo Ghost on ghost, Sam Beam (insieme a tutta la sua folta squadra di musicisti), si lancia in modo definitivo oltre il confine del folk, spaziando nel jazz, nel cantautorato americano e nel soul, pronto a catapultarsi nelle autoradio, pronto per essere infilato nelle playlist degli innamorati (anche quelli di città nelle quali “lui” non porta la barba lunga e odia le camicie a scacchi), pronto per vedere il proprio disco comprato dalle cinquantenni stanutitensi e non solo da sognanti ragazze appassionate di musica indie.
Iron & Wine sfida la popolarità; lo fa con classe ed eleganza, con sapienza, con senso della misura. Queste sono tutte caratteristiche rare nei prodotti musicali che raggiungono la popolarità, ma lui ce la può fare.
Ancora altri fan considereranno questo come l’ennesimo strappo alla rara bellezza del folk di Iron & Wine, ma tanti di più scopriranno un nuovo cantore e musicista di assoluta qualità, capace di destreggiarsi tra citazioni musicali che incarnano la storia culturale degli ultimi 60 anni. Non si tratta, però, di semplice citazionismo; forse in parte è esercizio di stile, ma per lo più è incanto.
La grazia di alcune note di chitarra sostenute dai fiati in Caught in the Briars, che ti accarezzano ogni volta. Oppure il senso di serenità infinita che esprime la delicatezza di Joy. La discrezione dei cori avvolgenti di Winter Prayers. La squisitezza pop di New Mexico’s No Breeze. La sfrontata autenticità soul di Lover’s Revolution. La semplice perfezione dell’intro piano e voce che apre Baby Center Stage.
C’è tutto: un bignami di bellezza.

Credits

Label: Nonesuch – 2013

Line-up: Sam Beam (vocals, guitars) – Rob Burger (keyboards, jew’s harp, hammered dulcimer, tubular bells) – Tony Garnier (electric & upright basses) – Tony Scherr (upright bass, guitar, ukulele bass) – Brian Blade (drums & percussion) – Kenny Wollesen (drums & percussion, bowed vibraphone) – Paul Niehaus (pedal steel guitar); with Maxim Moston (violin) – Hiroko Taguchi and Entcho Todorov (violin, viola) – Anja Wood and Marika Hughes (cello) – Steven Bernstein (trumpet, cornet, alto horn) – Doug Wieselman (tenor & baritone saxophones, clarinet, bass clarinet) – Curtis Fowlkes (trombone) – Briggan Krauss (baritone & alto saxophone) – Josette Newsome and Carla Cook (background vocals)

Tracklist:

  1. Caught in the Briars
  2. The Desert Babbler
  3. Joy
  4. Low Light Buddy Of Mine
  5. Grace for Sains and Ramblers
  6. Grass Windows
  7. Singers and the Endless Songs
  8. Sundown (Back in the Briars)
  9. Winter Prayers
  10. New Mexico’s No Breeze
  11. Lovers’ Revolution
  12. Baby Center Stage

Link: Sito Ufficiale, Facebook, Spotify

Joy – video ufficiale

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