Poco prima di calcare per la terza serata consecutiva il palco del Locomotiv Club di Bologna, abbiamo deciso di incontrare Lo Stato Sociale. Quello della band bolognese è un fenomeno che, sbollito il delirio tra le fazioni pro e contro, abbiamo voluto conoscere un po’ da più vicino, faccia a faccia.
Il live svoltosi dopo la nostra chiacchierata è stato senza dubbio dinamico e d’impatto. Un quintetto con una forte presenza scenica, protagonisti assolutamente disinibiti e goliardici. Un calderone di suoni elettronici, chitarre, tastiere, costumi e situazioni surreali per creare diverse realtà musicali che spaziano dalla canzonetta alla ballata proto-romantica, passando per piccoli inni generazionali e testi recitati.
Il giovane pubblico balla, ride e si diverte, e viene coinvolto dalla band anche con l’uso di un’app che trasforma lo schermo dello smartphone in un vero e propro riflettore di colori ed effetti luminosi.
Coriandoli, stage-diving, musica, sketch in uno show di quasi due ore, e prima di tutto ciò nel backstage la nostra chiacchierata!
E’ la prima volta che ci incontriamo quindi partiamo dall’inizio: prima fu la radio, poi Lo Stato Sociale. Com’è avvenuto il passaggio?
Lodo: Ci annoiavamo molto d’estate a Bologna quando non si faceva radio ed era molto caldo. A casa di Albi c’era una stanzetta-rifugio con degli strumenti rudimentali… era la sede della sua etichetta, che si chiamava FLOP (Free Làinz Operation, dove “làinz” in bolognese significa canne). Così ci siamo messi a fare queste pop-songs improbabili, all’inizio con l’idea di fare solo cose ironiche, poi ci siamo fatti un po’ prendere la mano. Abbiamo iniziato a girare, facevamo delle feste, vedevamo che la gente era presa bene e si divertiva. Poi alcune persone hanno trovato qualcosa di interessante in quelle canzoni, e ci hanno un po’ spiegato come fare.
Saranno le vostre voci “radiofoniche”, sarà il vostro canto spesso più simile al parlato, l’ironia di alcuni brani, ma in voi ritrovo il mito del Gioca jouer. Lo Stato Sociale sono figli degli anni ’80 (al di là della questione anagrafica)?
Lodo: Io sono dell’86, e non ho nessun mito verso gli anni ’80. Per me è proprio un periodo privo di fascino. Da una parte avvolto in una coltre pesantissima di dark, dall’altra spinto eccessivamente nel mito nell’opulenza del successo. Essendo nato nell’86 ho fatto in tempo, invece, a potermi ricordare un po’ di cose degli anni ’90 e lì mi ci trovo già di più. Ovvio che se vai a fare cose che sono anche delle trashate, giocando con questo ulteriore codice, allora riprendi anche quello che “per te” è trash, quindi anche alcune cose degli anni ’80 che per me lo sono.
Il vostro ultimo disco è un contenitore di diverse espressioni. Alcuni brani sono scritti da componenti del gruppo che non erano soliti farlo, con qualche novità (come La musica non è una cosa seria). Ci sono differenze molto evidenti tra i brani…
Lodo: La musica non è una cosa seria è un testo mio, pensato per Checco e quindi cantato da Checco. Nel tour scorso lui faceva Summer on a solitary beach, da solo con l’ukulele… così vedevo lui poco prima del tramonto con questa voce un po’ fatata e l’ukulele… la trovavo una cosa bellissima. Invece Il sulografo e la principessa ballerina è completamente musicata da Carota.
Com’è nata la collaborazione con Piotta? E’ un personaggio con il quale avete un reale rapporto ed avete continuato a collaborare?
Enrico: E’ stata un po’ una cosa nata e morta lì. Poi abbiamo suonato insieme a Milano, verrà a Roma, ci siamo conosciuti e ci siamo voluti bene. Per quel pezzo (Questo è un grande paese, ndr) la collaborazione è stata quasi obbligata perché si configurava proprio nell’immaginario descritto in quel testo, una cosa un po’ cazzona, e lui era esattamente il personaggio giusto.
Ora una domanda che può sembrare frivola me non lo è affatto. Sui socialnetwork sappiamo tutti che siete molto seguiti, allora penso ad una band storica come i Marlene Kuntz la quale nonostante gli sforzi per essere “web-friendly” in quello spazio ha comunque molto meno seguito di voi. Poi passando dal virtuale alla realtà, penso al fatto che sempre i Marlene Kuntz proprio pochi giorni fa erano qui al Locomotiv con due date delle quali una sold-out, mentre voi ora siete qui alla terza data consecutiva dopo addirittura due sold-out. Come considerate questi fatti?
Lodo: Ed anche questa data è praticamente sold-out e sarà annunciato a breve. Ma noi non abbiamo nessuna competizione con i Marlene Kuntz, anzi! E’ un gruppo con il quale sono cresciuto, sono venuto qua a sentirli, era il ventennale di Catartica ma il mio personale decennale perché la prima volta che li ho visti dal vivo era il 2004, al Parco Nord di Bologna. Per me sono assolutamente una figata. Credo che sia possibile che per una questione anche anagrafica noi abbiamo una leggerezza nell’uso del linguaggio di internet che è un po’ più immediata. Non ha senso misurare numericamente la qualità delle cose. Secondo me quello che fanno i Marlene Kuntz è meraviglioso, molto più di quello che faccio io. Non hanno fatto un altro sold-out ma ne avranno già fatti sessantamila. Noi sotto i trent’anni abbiamo fatto un sold-out all’Alcatraz, loro probabilmente sotto i trent’anni ne avevano già fatti un paio!
Parliamo della comunicazione sul palco: per voi è più importante comunicare o intrattenere? E se c’è, dov’è il limite tra le due cose?
Lodo: Eh… una bella domanda…
Enrico: Se vuoi intrattenere bene comunque devi comunicare. Noi siamo cinque persone molto diverse e il lavoro migliore che è stato fatto su di noi e tra di noi è cercare di tirare fuori le individualità, il meglio da ognuno, soprattutto nel live. Io sono più bravo a fare musica e cerco di fare il meglio in quello, e di cantare bene. Lodo, che ha fatto teatro, cerca di dire più cose e comunicare. Checco invece si muove benissimo, è un ballerino! (ride,ndr)
Lodo: A parte che, ora da questa descrizione, Checco sembra un bulgaro (ride,ndr), penso che con queste caratteristiche diverse si possa riuscire a creare un codice di intrattenimento che ti permette di abbattere la barriera del palco pur rimanendo credibile. In quei momenti vedi il tuo amico del liceo sul palco con te, che ti diverte, ma in quel momento il tuo amico del liceo su quel palco davanti a mille persone… è un coglione. Questa è una delle cose più difficili da fare in scena, da superare. E come tutte le cose difficili non sempre vengono capite. Quel tipo di intrattenimento, anche il dire una cagata, è quello il messaggio. Noi facciamo parte della stessa storia, siamo nella stessa stanza, e camminiamo insieme. Da qui ne viene che intrattenimento e messaggio vanno insieme.
Prima, quando mi raccontavi degli inizi, hai detto che dopo un po’ “qualcuno vi ha spiegato come fare”. Vi chiedo quindi: è il pubblico che ha trovato voi o voi che avete trovato il vostro pubblico?
Lodo: Secondo me siamo stati più noi. Almeno all’inizio l’idea era di avere un approccio molto aggressivo con la platea. Faccio una cosa che tu non puoi non fermarti e guardare. Vengo e ti prendo per la collottola, poi ti urlo in faccia.
Per fare questo vi siete messi dei paletti, dei limiti? Fino a che punto ci si può spingere?
Lodo: Ora cerchiamo di fare le cose per bene, ma Lo Stato Sociale nasce per non avere dei limiti. Un mio amico cantautore molto bravo, e non dico il nome perché non ha senso fare della polemica, mi ha detto “Lodo, l’artista deve essere quello che mette dei limiti”. A me questa cosa fa raggelare. L’artista secondo me è proprio quello che deve abbatterli i limiti. Se faccio un pezzo che in un momento suona come una babydance, non devo mettermi dei problemi, perché forse in quel momento ho proprio bisogno di quello. E’ un codice che voglio e devo usare. Fai la pagliacciata, fai la cosa seria, fai il pezzo parlato di sei minuti sulla strage di Bologna… .
Checco: Io credo anche che il pubblico debba essere ben disposto a voler seguire un nostro show. Questa nostra volontà di abbattere il confine del palco è una cosa alla quale il pubblico stesso deve concedersi. Il nostro pubblico si confronta con noi, un rapporto che si crea pian piano. E’ stato un crescere insieme, un incontro che ha contribuito anche a creare un certo tipo di show.
Enrico: Sì, è con i live che poi abbiamo capito di che sostanza è fatto il nostro pubblico, e ci è servito per creare anche tutto il contesto musicale dello spettacolo.
Quello che intendevo… quindi voi cercate di andare incontro alle aspettative del pubblico?
Lodo: Come in un qualsiasi rapporto. Negare l’interlocutore è da coglioni. Poi non necessariamente devi dargli esattamente quello che vuole, ma puoi portarlo da qualche parte. Se uno è convinto di “essere avanti”, ma sei talmente avanti che poi non ti segue nessuno, non sei “avanti”, sei solo come una merda. Se ti dico “domani andiamo a Parigi”, e mentre mi stai aspettando sotto casa io sono già a Torino, io non sono più figo di te, ma sono un fesso.
Enrico: Poi, ovviamente, se abbiamo notato particolare riscontro su alcuni pezzi, perché non crearne altri che siano più o meno in linea con quelli che abbiamo visto funzionare? Questo credo che sia più che doveroso e lecito.
Siete stati spesso critici con la scena/moda “indie”. Dal vostro punto di vista, quanto quegli spunti sono critici e quanto ironici?
Lodo: E’ autoironia da parte di Bebo. E comunque parliamo di un mondo che non c’è più. Nella “scena indie” da una parte ci sono le band un po’ più grosse, di livello nazionale, e dall’altra ci sono quelle veramente di nicchia che però non hanno più un pubblico di nicchia perché questo non esiste più. Parliamo di un mondo antico. L’”indie” non c’è. Se parli de Le Luci della centrale elettrica o Brunori Sas, de Lo Stato Sociale, parli di produzioni indipendenti che vanno in classifica e fanno sold-out. Se parli, per esempio di cose strafighe, come per esempio i Camillas, parli di una cosa profondamente lontana dal circuito del grande pubblico, ma che non ha più la garanzia nemmeno di trovare in un locale 200 persone, perché non ci sono più 200 persone disposte ad andare in un locale ad ascoltare un gruppo che non conoscono. E’ un problema. Infatti nei locali ultimamente è così: quelle serate che si sa andranno bene, alla fine vanno benissimo, quelle che sono un po’ delle scommesse vanno male.
Checco: Non c’è la cultura in Italia di andare nel locale a scatola chiusa. Quello è un approccio più anglosassone ed europeo, non tipicamente italiano.
Lodo: Pensa che i Camillas sono un gruppo talmente figo che una volta loro hanno suonato prima di noi e io mi sono vergognato. Io sono stato male, volevo andare a casa.
E come ti sei rapportato a questa cosa?
Lodo: Alla fine ho cercato di farmela passare. Tuttora ho il ricordo di un concerto brutto perché io pensavo a quanto era bella la cosa successa prima, ma non tanto perché quello che facciamo noi non sia bello, ma perché era comunque deturpante. Era giusto finisse la serata così, con il loro live.
Temete mai di essere fraintesi dal vostro pubblico? E se capita, sentite una responsabilità o fate spallucce e via?
Lodo: Sì. Certo. Tu fai tutto per essere chiaro ma…
Come dicevate all’inizio, è vostra intenzione “urlare in faccia al pubblico”, non pensate che a volte sia anche necessario farlo per dire “ridimensioniamo questa cosa”. Non pensate che il pubblico vada anche un po’ indirizzato? Sennò può essere anche facile vivere nell’equivoco…
Lodo: Secondo me ci sono alcune parole che denunciano delle indicazioni di tipo morale/qualitativo. Ci sono delle direzioni verso le quali andiamo e vogliamo portare qualcuno. A volte riusciamo con 100, a volte con 30, qualcuno capirà tutto, qualcuno capirà qualcosina. Noi facciamo sempre le cose a cipolla, con uno strato superficiale molto chiaro e spesso divertente, poi dei livelli sotto che alcuni capiscono ed altri no.
Lo Stato Sociale scrive, canta e suona per una generazione che è la vostra, che è la mia. Il vostro pubblico sarà sempre una generazione giovane o riuscirete a invecchiare con esso?
Lodo: Te lo diremo fra vent’anni!
Checco: Le canzoni de Lo Stato Sociale sono abbastanza temporali, inserite nel tempo che viviamo. Colpiscono la nostra generazione forse proprio perché questa generazione ha dei problemi che ritrova nei nostri brani. Va detto però che probabilmente questa generazione si allungherà molto. Si parla di generazione 20-30, ma magari fra dieci anni si discuterà di generazione 20-40 ed i problemi forse non saranno cambiati.
Lodo: Se fatto bene, ma non so dirti se noi lo facciamo bene, anche il contingente può avere una sua eternità. Per esempio le canzoni di Rino Gaetano, il quale parlava di cose ben precise di quei momenti, comunque sopravvivono. Lui però era Rino Gaetano, uno che veniva trattato come un fesso dalla critica ma sono cinquant’anni che continuiamo a cantare le sue canzoni. Lui è un mio mito, ed a lui non mi paragonerei mai, ma anche noi potremmo rimanere dei fessi qualsiasi o qualcosa potrebbe sopravvivere. Non te lo so dire.
Ora state facendo il tour invernale: quali sono le differenze rispetto al precedente tour e qual è il momento migliore del live?
Enrico: Suoniamo tutto il disco nuovo, e questa è già una grande differenza. Suoniamo quasi due ore allungando di mezz’ora il live. Ci sono queste tutine (ride indicando gli assistenti di palco che si stanno cambiando indossando delle imbarazzanti tute attillate, ndr).
Lodo: Parliamo di meno, suoniamo di più.
Enrico: E secondo me il momento migliore è Linea 30, così come la stiamo facendo ora a Bologna con il babbo di Bebo sul palco. Io purtroppo sono dietro, devo pensare alle note e non riesco a viverla, ma stando a quello che mi hanno detto anche degli amici tra il pubblico, quello è un momento sicuramente molto bello del live.
Lodo: Forse anche Per te canzone una scritto ho, che ha scenicamente una costruzione diversa… sì, abbiamo provato a fare un po’ di cose nuove.
L’ultima domanda è forse più una curiosità: Io, te e Carlo Marx… quest’ultimo dov’è?
Lodo: Non l’ho scritta io, ma posso dirti quello che ho capito. Carlo Marx è sullo sfondo, nel senso che ha a che fare con una visione del mondo per cui ci sono cose importanti ed altre per cui non bisogna lottare. Questo accomuna due persone che fanno una vita molto diversa ma che vorrebbero un’utopia comune. Il fatto che non dovrebbero essere assolutamente sfruttati per vivere, il fatto che gli spazi non siano invasi per interessi economici distruggendo la vita e portando malattie e miseria in senso lato, il fatto che l’ordine non significhi repressione. Questo è Carlo Marx là dietro. Due persone con due vite diverse che credono in un mondo simile, che è poi il mondo per cui probabilmente stanno insieme.