A sentire nata a Tulsa (Oklahoma) e cresciuta a Dallas (Texas) già si immaginano flanella, stivali da cowboy e country folk. Nulla di più distante dalla trentaduenne Annie Erin Clark che dal 2006 si esibisce con lo stage name di St. Vincent, ispirato dai versi di Nick Cave “And Dylan Thomas died drunk in / St. Vincent’s hospital” (da There She Goes my Beautiful World), immagine decadente che invero contrasta con le armonie spumeggianti della musicista, ma oggi più che mai si rispecchia nella teatralità delle esibizioni. Difatti la parola concerto suona riduttiva per una siffatta performer a tutto tondo, completa. Compone brani complessi e sofisticati che mescolano glam, pop, funky, art rock e te li presenta come la cosa più semplice e orecchiabile di questo mondo. Canta perfettamente in un registro ampio, con voce precisa e melodiosa, ma anche dura e graffiante, arrotata e sensuale. Suona la chitarra, due in verità, un’elegante Ernie Ball – Music Man nera e un’acidissima Fender verde, con una facilità disarmante senza mai una sbavatura, una perdita di controllo, quasi sfiorando lievemente le corde, più spesso pizzicate con le dita che col plettro, anche nelle più assordanti parti noise. Per inciso, la chitarra è solo il suo strumento preferito, ma negli album pubblicati ha suonato praticamente di tutto. Si muove con teatrale disinvoltura e gesti studiati tutti suoi che incantano e divertono, come le piccole storie che talvolta racconta con tale voce suadente che catturerebbe l’attenzione anche di chi fosse completamente a digiuno d’inglese. Recita questi interludi su un canovaccio collaudato che di volta in volta si adatta al luogo che la ospita, con una naturalezza e una verve che ad oggi avevo visto solo in Peter Gabriel. Così saluta tutti i freak di Roma dicendo di avere due cose in comune con loro: essere nati prima del 21° secolo e avere avuto da bambini quel desiderio folle di volare che spingeva a saltare dal tetto di casa indossando ali fatte coi cartoni delle pizze, e non importa quante volte ci si è sbucciati o fratturati, perché non abbiamo mai smesso di sperare!
St. Vincent è dunque totalmente padrona della scena, la riempie con la sua esile e raffinata figura, e difatti il palco è quasi del tutto spoglio, ad esclusione di un podio piramidale a tre scalini, al centro, replicato in grande scala sul fondale del boccascena.
Da non sottovalutare, in ogni caso, il supporto della band, che accompagna St. Vincent dalla presentazione del precedente album Strange Mercy (2011) nella sala del tempio di Dendur al Metropolitan Museum of Art di New York ed è perfettamente rodata per le ultime date di un tour iniziato quest’inverno.
Matt Johnson scandisce i brani con un drumming potente fatto di frequenti incursioni sui tom e rullate che sottolineano a dovere i cambi di tempo o le follie chitarristiche della leader, avendo cura meticolosa nel variare timbri e colori dei brani, ad esempio affiancando alle due grancasse acustiche altrettanti pedali elettronici che raggiunge arcuando a dismisura la gamba sinistra oltre il charleston, mentre un pad offre alle sue bacchette una varietà di sintetiche alternative al rullante.
Le parti di basso sono corposamente interpretate con una coppia di sintetizzatori dalla giapponese Toko Yasuda che occasionalmente incrocia una sei corde con la leader (Bird in Reverse e Huey Newton) o la sostituisce nei momenti più quieti quando St. Vincent si dedica al solo canto (I Prefer Your Love).
Le tastiere vere e proprie sono invece il regno di Daniel Mintseris, immobile sotto il suo cappello scuro, che conferisce più di ogni altro un sound elettronico alla band, ma ricco di divagazioni prog, aiutando la stessa St. Vincent nella gestione di una lussuosa pedaliera RJM Mastermind controllata in remoto via MIDI anche dal tastierista in modo da lasciarle maggiore libertà sul palco e impedirle di trasformarsi, come lei stessa ha dichiarato, in una “pedal tweaker and a shoegazer” (diversamente non avrebbe modo di switchare gli effetti quando è in cima alla piramide).
Passando alla scaletta, il concerto si apre col groove incalzante di Rattlesnake, proprio come l’ultimo omonimo album dal quale è tratta più di metà dei brani (9 su 16). E già si capisce che sarà ben più di un concerto, dai movimenti armoniosi di St. Vincent mentre canta le prime strofe, per poi arretrare con passo da automa e afflosciarsi come una bambola di pezza davanti alla batteria in attesa che il roadie le calzi la chitarra per eseguire il primo, lisergico assolo che chiude la canzone.
Il tema di Cruel, dal precedente album, si fa glam grazie all’algida eleganza dell’assolo glissato e vibrante, che mostra tutta la cura posta nell’ottenere il sound giusto dalla sei corde. Da Actor (2009) provengono Actor out of work e Marrow: la prima emblema della leggerezza che St. Vincent è capace di trasmettere al suo pubblico; la seconda, con il verso “I wish I had a gentle mind / And a spine made up of iron”, sintetizza appieno la compiuta metamorfosi da Annie Clark a St. Vincent. In Regret la musica si arresta di colpo e la cantante resta sospesa con lo sguardo al cielo per un tempo che pare infinito mentre tutto l’aditorium resta in muta attesa dell’ultimo refrain. A metà della serata la band presenta Sparrow, brano inedito, suonato la prima volta a Stoccarda appena sei giorni prima, in cui St. Vincent intona un delizioso e cinguettante coretto all’unisono con Yasuda; la canzone sarà sul lato B del prossimo singolo a nome St. Vincent, assieme a Pieta, sulla facciata principale, ascoltata in altre tappe sin dall’inizio del tour. Surgeon, come nell’album, scorre tra dense strofe e bruschi cambi di ritmo fino alla forsennata coda psichedelica: ci fosse un sassofono sembrerebbe Albert Ayler. In Prince Johnny la band leader sale sul podio e accompagna il dolcissimo canto con puliti e rapidi guizzi pentatonici e dosati accordi liquidi al sapore di Leslie; si lancia, infine, in un solo blues doloroso, tagliente, dissonante, degno della Villanova Junction di Hendrix o del Page di No Quarter. Il brano termina con applausi fragorosi mentre i pad di Mintseris disegnano uno scenario di decadenza mitica, ma è una mitologia psichedelica, s’intende; la musicista abbandona la chitarra, si accascia lentamente dal vertice della piramide e rotola pian piano fino a restare in bilico con la testa in giù. Birth in reverse è un ulteriore esempio della precisione metronomica di St. Vincent alla chitarra che passa dal riff raddoppiato dalla voce al groove funk del refrain con una carica mai debordante e una delicatezza misurata con la quale pare sfiorare le corde, e nel finale strumentale inscena una coreografia con Toko, camminando come robot. L’intreccio di sinth progressive di Huey Newton si scontra frontalmente col riffone hard che cambia bruscamente registro in un crescendo incalzante dal suono grezzo e graffiante doppiato dalla seconda chitarra di Yasuda.
Bring Me Your Loves chiude il set con le sue cadenze quasi islamiche, ma il pubblico non la smette di applaudire e gridare a squarciagola: la band risale sul palco per il bis apocalittico, affidato a Your lips are red, l’unico brano dall’esordio Marry me del 2007, qui ancor più ruvido e scarno per preparare l’esplosione del riff frippiano, prima che St. Vincent celebri il rito collettivo di chiusura. Scende con la chitarra tra le fila del pubblico radunandolo come un pifferaio magico, anzi una divinità da adorare; avanza contorcendosi elegantemente come un rettile o un grande felino, mentre i lustrini del vestito scintillano sotto le luci impazzite; mi passa accanto, ne ho quasi paura; strappa uno smartphone dalle mani di uno spettatore e comincia a riprenderlo con uno sguardo folle; viene completamente circondata mentre rantola furiosamente per risalire sul palco, dove assistiamo alla sua tragica morte. Poi, lentamente, teatralmente, si rialza. Domina Dioniso, si quieta e riprende a suonare il brano, che nel frattempo è andato avanti, proprio come andavano avanti gli Experience mentre Hendrix incendiava la chitarra a Monterey. Un’ultima staffilata e il concerto finisce, nessuno osa chiedere di più, sarebbe troppo. St. Vincent saluta con un sorriso estatico e quasi intimidito, rivelando sotto la maschera divina il volto affabile e umano di Annie.
Foto di Alessio Cuccaro