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A note spiegate – Daniele Sepe

recensione_danielesepe-anotespiegate_IMG_201505A note spiegate non è una storia del jazz, una ricostruzione filologica e cronologica di un genere, bensì un laboratorio (che trova qui su disco una sintesi di soli 13 brani tra gli 80 utilizzati, oltre un cd con 8 extra distribuito in “tiratura limitata” tramite Musicraiser), portato in scena a partire dalla fine del 2013, nel quale sviscerarne nel modo più diretto possibile, vale a dire suonando, caratteristiche formali e strutturali dei vari filoni in cui si articola, dal be-bop al free (con tutto ciò che è intercorso o ne è disceso), imparando a distinguere emotivamente (non si tratta di un corso di solfeggio) accordi maggiori e minori, tempi, battute.
Non è un caso che l’album si apra con Fables of Faubus, ovvero le fandonie di Orval Faubus governatore dell’Arkansas che nel 1957 inviò la Guardia Nazionale a impedire che nove studenti di colore frequentassero la scuola di Little Rock. Si vuol subito chiarire l’intreccio tra jazz e lotte per i diritti civili degli afroamericani che videro schierati in coraggioso impegno politico alcuni dei massimi esponenti del genere, tra i quali Mingus che denunciò le menzogne di Faubus nell’album Mingus Ah Um (1959); le parole che irridevano il governatore furono censurate dalla Columbia e incise solo l’anno seguente per un’altra etichetta (Candid), con la collaborazione, tra gli altri, del sax alto di Eric Dolphy. Suonare contro la segregazione è di drammatica attualità ancora oggi che il Mediterraneo è diventato da catalizzatore di civiltà variegate una barriera, superabile ormai troppo spesso solo a prezzo della vita. Pensa probabilmente a questa e altre forme di segregazione Sepe mentre esegue la sua versione: leggermente più veloce dell’originale, di cui conserva il tono sarcastico e irriverente (già presente in Also Sprach Berluskastra), con accenti più marcati e una maggiore presenza del piano affidato a Tommy De Paola, specie in certi affondi vertiginosi, e finanche il tocco misterioso della sega musicale di Pietro Festa, una vera e propria sega suonata con l’ausilio di un archetto per violino, che ha un timbro ululante da storie di fantasmi.
Sembra quasi cercare la giusta intonazione Sepe prima di cimentarsi con la Blue room registrata nel 1965 da Sonny Rollins (che per Sepe è il tenore stesso), il cui tema principale diventa a un tratto ‘E spingule francese; non c’è alcun intento macchiettistico, solo quello di svelare relazioni, certo in maniera anche ironica, tra universi musicali apparentemente troppo distanti per comunicare, come possono esserlo uno standard jazz e una classica canzone napoletana (succede anche nel brano di Mingus in cui d’improvviso si inserisce Comme facette mammeta). E a Napoli ci riporta anche la Mercy, mercy, mercy scritta da Zawinul ai tempi del quintetto di Julian “Cannonball” Adderly (1966) e rifatta in italiano dagli Showmen di Mario Musella e James Senese (Credi, credi, credi in me, 1969), dal ritmo incalzante e gioioso, impreziosito dalla coloritura soul dell’organo.
L’eleganza compassata di Bill Evans viene riletta come se fosse un brano dei Weather Report, che non erano esattamente assorti e introspettivi come il pianista, ne viene fuori una Loose bloose, di fatto più briosa e dinamica, che trasforma il fumoso mood notturno di Evans in una scorribanda tribale in una giungla metropolitana.
Fin qua il “Jazz ufficiale”, categoria in cui più di un critico storcerebbe il naso nel veder comparire Frank Zappa, che scrisse Sofa nei primi anni ’70, eseguendola dal vivo con la band allargata alle due voci dei Turtles, prima di pubblicarla in One size fits all (1975). La versione a cui guarda Sepe è quella di Zappa in New York (1978), che riserva una parte molto più rilevante ai fiati grazie anche al prolifico tenore di Michael Brecker, ed è qui dilatata dal lungo solo di Franco Giacoia alla chitarra elettrica, fatto di sinuose accelerazioni e fraseggi pastosi in perfetto stile zappiano. Segue senza soluzione di continuità King Kong, lunghissima jam psichedelica in ¾ che nell’album Uncle meat (1969) si articolava in ben sei parti per un totale di quasi 20 minuti, compressi qui in meno di tre anche grazie alla rilettura che ne diede il violinista Jean Luc Ponty appena l’anno dopo.
Piazzata al centro dell’album come una necessaria pausa, Mademoiselle Mabry si apre con le originali battute di chiusura di The wind cries Mary, col semplice e straordinario passaggio semitonale di tre accordi partorito dal genio di Jimi Hendrix. Miles Davis, che sognava all’epoca un album col chitarrista di Seattle, utilizzò quel passaggio in questo brano (edito nell’album Filles de Kilimanjaro del 1968), con l’arrangiamento di Gil Evans, che lo ripropone in un meditativo loop, che sembra un rallenty senza esserlo, offrendo al batterista Tony Williams la giusta base per una serie di sofisticate variazioni percussive, quasi da talking drum, procedimento già in parte sperimentato (all’inizio dello stesso anno) in Nefertiti, scritta guarda caso da quel Wayne Shorter qui imprescindibile riferimento.
Big Nick – U’n’L: Sepe rifà Davis, che rifà Duke Ellington e John Coltrane, che rifanno John Coltrane, che omaggia il sax tenore di George Walker “Big Nick” Nicholas; come dice sempre Daniele “nulla si crea dal nulla”. Menzione speciale per lo sporco lavoro del basso di Davide Costagliola (ma gli vale per tutto l’album).
Ma è nel sangue caldo del Sud America di Antonico, scritta da Gato Barnieri nel ’73, che il ‘Gato’ Sepe trova la sua più congeniale veste di sassofonista, come avveniva in Zamba del Che/ Lunita Tucumana, tra i vertici della produzione del napoletano, e infatti anche il CD di extra contiene ben due versioni di Last Tango in Paris (1972) dello stesso Barbieri.
Presenti un po’ ovunque in quest’album, i Weather Report vengono finalmente risuonati in una versione di Palladium che è ritmo allo stato puro (ed è questa una chiave di lettura dell’intero disco), con prova superlativa di Paolo Forlini alla batteria e del brasiliano Robertinho Bastos alle percussioni. L’ultima parte, vitale e frizzante, è il lieto fine di un film i cui protagonisti escono di scena allontanandosi a bordo di una imbarcazione verso l’orizzonte di una giornata luminosa. E la destinazione è la Giamaica di Bob Marley che ci riporta alla realtà con So much trouble in the world, unita al reggae italiano di E la luna bussò da una penetrante linea di basso presa in prestito ai Police di The Bed’s Too Big Without You che conduce il brano alle rarefazioni dub del finale.
Ennesimo cambio di scena e dal terzo album dei Led Zeppelin arriva Out on the tiles, con Sepe che si destreggia tra i riff di Page e il canto di Plant in un arrangiamento che non è il jazz-rock dei vari McLaughlin, Cobham o dello stesso Davis, ma più semplicemente rock, anche se eseguito da un quintetto jazz.
Ed è uno dei più celebri standard jazz, la ‘Round midnight incisa da Thelonious Monk nel 1944, a chiudere questo viaggio. Una musica che non ha bisogno di presentazioni, che si tinge di hip-hop con le parole di Paolo Shaone Romano e quasi non ci si accorge del comandante Che Guevara far capolino sui tasti di De Paola.
Forse, a questo punto, si dovrebbe terminare con un aperto elogio di Daniele, ma cos’altro si può dire di uno che da quarant’anni ci regala dischi così?

Credits

Label: autoprodotto – 2015

Line-up: Daniele Sepe (sax tenore, sax soprano, campane tubolari) – Pietro Santangelo (sax tenore in Mercy, mercy, mercy) – Alessandro Tedesco (trombone) – Pietro Festa (sega musicale) – Franco Giacoia (chitarra elettrica) – Tommy De Paola (pianoforte, celesta, tastiere) – Davide Costagliola (basso elettrico) – Robertinho Bastos (congas, percussioni) – Paolo Forlini (batteria) – Paolo Romano “Shaone” (voce)

Tracklist:

  1. Fables of Faubus
  2. Blue room
  3. Mercy, mercy, mercy
  4. Loose bloose
  5. Sofa
  6. King Kong
  7. Mademoiselle Mabry
  8. Big Nick – U’n’L
  9. Antonico
  10. Palladium
  11. So much trouble in the world – E la luna bussò
  12. Out on the tiles
  13. ‘Round Midnight

Link: Sito Ufficiale

Palladium – video

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