I Mimes of Wine di Laura Loriga sono tornati con La Maison Verte, il nuovo albumche vi abbiamo raccontato sulle nostre pagine.
A tre anni di distanza da Memories of the unseen, ritroviamo Laura Loriga per farci raccontare questo nuovo lavoro asciutto e vibrante, che evoca atmosfere eteree e momenti di pathos.
La Maison Verte è stato già pubblicato negli USA lo scorso giugno, come è nata la scelta di debuttare prima sul mercato americano? Lo sentite più affine al vostro progetto?
La scelta è stata soprattutto dettata dalla volontà di collaborare con Adam Moseley, questa volta non per i mix (come era stato per Memories for the Unseen), ma con una vera uscita per la sua Accidental Muzik. Confrontandoci anche con Paolo Naselli di Urtovox, abbiamo pensato insieme questo calendario, che ci sembrava avrebbe dato il giusto spazio ad entrambe le dimensioni. Non credo possiamo dire che il mercato americano sia necessariamente più affine al nostro progetto, soprattutto avendo fatto solo dei primi passi in questo senso; questo tentativo rappresenta un’intenzione di apertura, confronto, e di desiderio di crescita, innanzitutto artistica, che sentiamo molto. I risultati, per quanto piccoli e ancora in sviluppo, ci hanno dato molta soddisfazione.
Proporre sonorità emotive e complesse ha comportato difficoltà per emergere nel mercato italiano?
In realtà, la risposta diretta del pubblico è stata finora (fin dal primo disco) positiva sia qui che all’estero; sia per quanto riguarda i concerti della band che i miei come solista (piano e voce). Si crea un’energia molto semplice, spontanea, e non credo ci siano limiti in questo senso. Probabilmente è più complesso proporre noi rispetto ad altri progetti, e forse questo ci preclude grandi numeri, ma con un po’ di coscienza e prospettiva nei confronti di quello che si fa sono cose che si possono affrontare, e che in un certo senso danno un valore anche maggiore ai risultati ottenuti.
Il pubblico americano ha potuto anche ascoltare le canzoni dal vivo in una serie di concerti tra Los Angeles e New York. Ci racconti come sono andate queste tappe, che emozioni hai provato e soprattutto, quando noi potremmo sentirti in giro per l’Italia?
I concerti si sono svolti tutti in posti intimi e con un pubblico estremamente attento, e questo è stato molto positivo. Personalmente, una delle cose che mi colpisce di più è sempre che lì le mie parole, scritte nella lingua del pubblico, non sono più da tradurre, e che forse arrivano persino più direttamente a chi ci ascolta che a me. Il che crea una sensazione di vulnerabilità, rafforzata anche dalla distanza geografica, che però mi piace molto. Tra tutte, le date a cui sono rimasta più “affezionata” sono state quella al Troost, un piccolo locale di Brooklyn, e il live per Breakthru Radio (Dumbo, Brooklyn). In una città che forse contiene un numero di band pari a quello di metà Italia, comunque ci siamo sentiti a casa. In Italia, al momento stiamo lavorando sul nostro tour che comincerà dopo Natale.
Ancora tre anni di distanza dall’ultimo Memories for the unseen che ha seguito Apocalypse Sets In, è questo il tempo minimo per realizzare il tuo discorso musicale? Che tappe potresti identificare nel tuo processo di creazione?
Questa volta vorrei che i tempi si accorciassero, e siamo già al lavoro in questo senso. Quello che è successo entrambe le volte finora è che il primo anno dopo l’uscita è stato dedicato al tour e a mettere giù spunti per il lavoro seguente, poi creato e arrangiato con la band nel secondo anno, e realizzato e preparato per l’uscita nel terzo.
Il nuovo album presenta una forte ed evidente armonia di insieme, tutti gli strumenti partecipano all’equilibrio musicale, non lasciando più la tua voce e il tuo piano al centro della scena. Come è avvenuta questa evoluzione e quanto ci avete lavorato?
È un po’ quello che abbiamo cercato. Come accennavo, tutto il 2015 è stato dedicato (oltre che ai nostri altri progetti paralleli) all’arrangiamento di insieme di ogni elemento, a partire dalla sezione ritmica, che questa volta abbiamo pensato dall’inizio come più presente. Abbiamo introdotto elementi nuovi (organi, nichelarpa, elementi elettronici minimi), e ristretto la palette complessiva dei suoni, dando uno spazio diverso al pianoforte stesso. È stata un’evoluzione naturale, e anche una fotografia di noi in quel preciso momento.
La Maison Verte ci è apparsa subito come una soundtrack perfetta di un’ideale produzione cinematografica. A quale regista (presente o passato) vorresti proporla o ti senti ispirata?
In un mondo ideale, penso a Bela Tarr o Terence Malik, ma non con questo preciso album. Non sono io la vera esperta di cinema nella band, dovrei riformulare la domanda a chi (soprattutto Stefano) potrebbe rispondere con tanti altri nomi, a cui forse potremmo fare capo per dirigerci in una dimensione di reale colonna sonora. Ho pensato spesso a film già esistenti anche scrivendo questi brani (Lo Spirito dell’alveare, Days of Heaven), ma in maniera molto subconscia, frammentata, legata a colori, movimenti e sensazioni.
Los Angeles, New York, San Francisco, Parigi e Bologna sono le tappe del tuo percorso personale e le città che hanno fatto da sfondo alle tue canzoni. Quali di questi posti hanno influenzato maggiormente il tuo discorso musicale e quale di questi luoghi pensi possa ancora ispirarti?
Parigi e San Francisco sono state tappe molto belle, e piuttosto brevi, di molti anni fa (quasi dieci). Sono città che amo molto, ma dove non ho messo mai radici. Los Angeles è stata invece, insieme a Bologna, la mia casa dal 2007. Lì ho deciso di intraprendere questo percorso, e lì ho imparato le prime basi di tante cose, sia dal punto di vista del live che da quello della scrittura e dei tanti altri elementi di questo lavoro. È una città dai mille colori che possiede una grande ricchezza, forse meno visibile rispetto ad altri posti, ma del tutto reale. Tuttora sto lavorando su vari progetti basati lì e non vedo l’ora di tornare. Al presente, nella mia vita ci sono però Bologna (casa e domicilio della band) e New York, che mi sta dando stimoli e possibilità molto belle.
Come ultima domanda ti chiedo di elencare cinque brani per una playlist che tramite musica e parole altrui ci parli un po’ di te.
Oggi mi sembra che questi brani possano raccontare cose diverse, e tutte molto vicine: Rowland S. Howard – She cried; Nick Cave – Girl in Amber, Terry Allen – Real life, Pj Harvey – Pocket knife, Kevin Coyne – Marlene