Il 24 Febbraio è una data importante, per Pieralberto Valli, perché è la data d’uscita del suo primo album da solista, ATLAS, “un disco coraggioso e che vive fuori dal tempo. Anzi, è un disco che viene da un posto dove forse il tempo si è fermato.”, riporta il comunicato stampa che lo ha preceduto. Ho parlato un po’ con lui, per saperne di più, perché di coraggio (e di tempo) oggi ce n’è un gran bisogno.
Ed è proprio da questa domanda che voglio partire: perché “coraggioso”?
Negli ultimi dieci anni il panorama musicale è cambiato molto. Gli spazi per la musica, la sua presenza nelle nostre vite, la rivoluzione di utilizzo dovuta a internet, il gusto generazionale: cose che un tempo sarebbero state percepite come lontane dal nostro mondo, ora invece ne fanno parte. Fare qualcosa di diverso, in Italia, adesso, è una responsabilità, un rischio. C’è un prezzo da pagare. Il disco può essere percepito come pretenzioso, non comunicabile a tutti, e non perché io sia più importante di altri, ma semplicemente perché è un lavoro stratificato, non facilmente decifrabile.
Non è la priorità, quindi, arrivare a tutti.
Chi scrive musica la scrive per qualcuno, e chi, come me, fa dischi da tanti anni, sa quali sono le coordinate del pubblico. Non mi precludo l’idea di arrivare a tutti, ma accetto il rischio di non arrivare a tutti. Può sembrare snob ma è onesto. Ciò che nasce da me, nasce così, senza troppi ragionamenti. Sono felice di quello che ho fatto e mi sento coerente con quello che sono. È bello coinvolgere le masse ma è allo stesso tempo spaventoso. Il successo di un disco non è arrivare a più persone, ma arrivare al cuore di un gruppo di persone, nella loro profondità.
Rispetto al tuo periodo con i Santo Barbaro, cosa è cambiato in questo percorso da solo?
I Santo Barbaro partivano da me, ma poi lavoravamo insieme sin dallo stato embrionale. Questo disco è il primo veramente da solo, anche se ho continuato a lavorare insieme a Franco Naddei. A livello di responsabilità cambia tanto. Nei Santo Barbaro confluivano riferimenti musicali diversi, varie anime. Franco ad esempio ha portato nel gruppo suggestioni riferite agli anni ’80, alla new wave, all’industrial etc. In ATLAS, invece, tutte le suggestioni sono soltanto mie. C’è una grande differenza nel metodo di lavorazione, ed è stato tutto molto più difficile, perché se prima mi bastava uno spunto per arrivare in studio e lavorare insieme agli altri, ora mi sono serviti due anni di lavoro duro, per dirmi sicuro del risultato.
ATLAS è definito un “viaggio iniziatico”. Di che tipo di viaggio si tratta?
Innanzitutto il disco è ragionato per essere un lavoro d’insieme, intero, che parte dalla traccia 1 e finisce (forse) alla traccia 10. Un lavoro che ha varie chiavi di lettura, un vero e proprio viaggio che parte da Atlantide, un mondo subacqueo che piano piano riemerge verso la terra, fino ad Esodo, arrivando in alto, nello spazio, tra gli universi e L’avvento dei futuri. Per ricreare queste suggestioni l’album ha all’interno una mappa, un poster, un astrolabio, per rimarcare il fatto che si tratta anche di un viaggio fisico, che è iniziatico, personale. È il movimento dell’uomo, che fa da mediatore tra la terra e il cielo, dal basso verso l’alto, inteso come consapevolezza, come illuminazione. Descrive me in questi ultimi anni.
È importante che si valorizzi l’oggetto disco, che gli venga dato un valore, un motivo in più per averlo tra le mani. Qui sembra quasi che contenga strumenti necessari per affrontare questo “viaggio”.
Ho pensato di dare delle coordinate attraverso il disco per comprendere qualcosa in più del suo contenuto. L’idea della mappa, dell’ATLAS come guida per trovare un luogo, che può essere fisico o esistenziale, emotivo, personale, è un atto simbolico. L’andar per mare, trovare l’isola nascosta, il luogo inesplorato, che troviamo spesso anche nella letteratura, è un modo per parlare della ricerca che tutti affrontiamo, per arrivare al luogo più nascosto di noi stessi.
Dopo aver scritto il disco, ho riletto a distanza di tempo La linea d’ombra di Conrad, un romanzo marino, appunto, che ha il mare come tema principale, che parla di un viaggio personale, una linea d’ombra dove tutto si ferma, e questa linea, dove affiorano tutti gli spettri del passato, è il punto da superare per ritrovare se stessi, per tornare in porto.
Un concetto archetipico della nostra cultura.
Questo lo si racconta anche attraverso i suoni?
C’è molta continuità di suono, nel disco. Gli elementi sonori sono quelli: voce, pianoforte, elettronica, per ricreare una compattezza tra le varie tracce, che accompagni l’ascolto dei testi. Una melodia un po’ subacquea, molto morbida e sospesa.
Sempre mantenendo una certa carnalità, la fisicità e l’aderenza alla terra, con descrizioni corporee e concrete.
Come si legano parole e musica?
Le tengo divise fino a un certo punto. Prima lavoro sull’aspetto musicale e armonico. Per questo disco ho fatto una cinquantina di brani musicali, voce e piano. Parallelamente scrivo, centinaia di appunti, frasi, micro testi.
Di quei brani musicali, poi, ne ho scelti una dozzina.
Rileggo poi le parole, e le avvicino alla canzone alla quale sono naturalmente collegate.
Fatto questo, dato che l’italiano ha una ritmica obbligata, inizia il lavoro più metodico, ossia modellare le parole, giocare sui sinonimi, sugli incastri, seguirne il ritmo; un lavoro che può durare anche mesi.
Hai impiegato due anni, dicevi, per realizzare ATLAS. In due anni cambiano molte cose. Come si può continuare a sentire presente qualcosa che è stato scritto due anni prima?
In effetti in questi ultimi anni la mia vita è cambiata molto. Anche fisicamente, mi sono spostato dall’Appennino più tranquillo a Roma. Io cerco di scrivere a vari livelli di comprensione, provo a usare le cose che mi capitano, le riflessioni, cercando di renderle aperte a varie interpretazioni, il più possibile universali, motivo per cui non scrivo biograficamente quello che mi capita, non lego al presente ciò che racconto.
Tra i vari libri che ho letto in questo ultimo periodo, ad esempio, c’è Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d’amore» di Luigi Valli. In questa analisi, secondo alcuni studiosi, Beatrice e le diverse figure femminili cantate dai poeti del “dolce stil novo” corrispondono a un’unica Dama simbolica che rappresenta l'”Intelligenza trascendente”. Per cui l’amore che ci hanno insegnato a scuola, in realtà secondo loro serviva per parlare d’altro, di qualcosa che è slegato dall’amore. E questo mi ha colpito molto, perché è quello che cerco di fare io, di usare il presente, la vita privata, per parlare d’altro. I piani così diventano infiniti. La vita cambia ma le cose di cui parli sono più o meno sempre valide, perché sono alla base dell’esistenza.
Nelle mie canzoni io stesso, nel tempo, ci ritrovo cose diverse, perché la scrittura nasce per essere aperta.
Quanto è importante l’esterno per scrivere dell’interno?
È uno specchio continuo, tutto questo mondo ti fa da specchio, ti porta a ragionare su te stesso, sui tuoi limiti, sulle contraddizioni. “Ho un segno sulla fronte”, dico ad un certo punto, nell’album. Come se gli altri vedessero in me alcune cose con estrema facilità, cose che a me sfuggono. Io poi provo a slegarle, e a renderle più ampie, ma nascono spesso da cose pratiche. Trovo noioso che uno possa interessarsi solo alle mie quattro mura. Forse il senso è estendere l’emozione alle quattro mura di tutti noi.
Tu non sei solo un musicista, ma sei anche un insegnante. Come riesci a conciliare le due cose?
Io ho scelto di lavorare, part-time, ma ho scelto di non lasciare il mio lavoro, perché affidarsi alla musica, oggi, per mangiare, significa costringersi a fare cose che non vorresti fare, artisticamente.
La musica per me è sacra. Voglio essere libero sotto quel punto di vista. Mi rende vivo. Libero e vivo.
Il secondo singolo uscito prima del disco, Frontiera, è liberamente tratto dal testo omonimo di Luca Barachetti. Come è nata questa ispirazione?
Luca recensì i primi due dischi dei Santo Barbaro, poi aprì un ufficio stampa che ci seguì e mi propose di scrivere un libro quando gli dissi che stavo scrivendo molto.
C’è sempre stata stima tra di noi. All’epoca cantava nei Bancale, leggeva su sottofondi musicali, e quando ascoltai il testo di Frontiera, mi colpì sin da subito. Un giorno, strimpellando un pezzo, mi sono ritrovato a canticchiarlo, e sembrava perfetto per quella musica.
“Io sarò la tua frontiera” è un’immagine bellissima, perfetta per questo disco. Il concetto dell’”io finisco dove tu cominci.”
Mi sembrava giusto rendere merito alle sue parole.