Quello tra Daniele Sepe e Gato Barbieri è un rapporto di vecchia data. Fonte di ispirazione costante, la musica del grande sassofonista argentino si ritrova in molti lavori del napoletano, in un brano, un fraseggio, una nota, quella singola nota che fuori da ogni tecnicismo accademico determina la sigla, la cifra stilistica di un autore, la sua immediata riconoscibilità. In cerca di quella straordinaria riconoscibilità posseduta da Gato, Sepe si cimenta in un omaggio che evita con modestia il classico album di cover tributo, prodotto che spesso infoltisce il mercato musicale aggiungendo poco o nulla alla memoria dei musicisti celebrati, per non dire dei celebranti. Ma a ben vedere il progetto di Daniele è ben più ambizioso: immaginare un repertorio diversificato per generi e provenienza come se a comporlo o interpretarlo fosse stato Barbieri in persona. Profondo conoscitore della storia della musica, Daniele ha sempre contestato il concetto di originalità generalmente intesa, indagando, con piglio filologico, l’origine di forme e motivi, i nessi e le reciproche influenze tra culture musicali anche apparentemente distanti. Per dirla con Roberto Longhi un’opera d’arte ‘non sta mai da sola, è sempre un rapporto. Per cominciare: almeno un rapporto con un’altra opera d’arte. Un’opera sola al mondo non sarebbe neppure intesa come produzione umana‘. Un principio che vale, naturalmente, anche per la musica. Proprio per questo, la lezione più grande che Sepe apprende da Barbieri consiste nel superare gli steccati tra i generi, reinterpretando le proprie radici con la massima libertà. Per questo non si parte dall’Argentina, come era prevedibile, ma dal Cile di Victor Jara, altra figura chiave nell’universo di Sepe al quale il musicista partenopeo ha dedicato un intero album (Conosci Victor Jara? del 2000), con la collaborazione di José Seves degli Inti Illimani, che pure diedero la propria sentita versione de La partida. Lo strumentale del 1971 viene proposto qui in una veste più dinamica, grazie all’estro di Hamid Drake, batterista dal curriculum stellare, che ha lavorato con giganti come Herbie Hancock, Don Cherry, Archie Sheep e Bill Laswell. Il suo apporto ritmico al brano si accentua nell’apertura della seconda parte a sostegno dell’assolo brioso di Sepe, al cui sax è affidato il tema portante dell’originale, che conserva qui il melodico arpeggio di charango, eseguito da Roberto Trenca, e la dolcezza della quena, il flauto delle Ande, suonata da Roberto Lagoa. Ma è la lunga introduzione di Song for Che a mettere decisamente il piede sull’acceleratore, al ritmo di un samba forsennato che mette in campo una doppia sezione ritmica, due batterie e due bassi, distribuita sui canali stereo: Hamid Drake e Aldo Vigorito sulla sinistra dell’ascoltatore, Roberto Gatto e Davide Costagliola sulla destra. Ed è anche il primo confronto indiretto con Barbieri che ha partecipato alla prima incisione di Song for Che di Charlie Haden nell’album di esordio della Liberation Music Orchestra del 1969. Il tema dell’originale, affidato al basso del leader, viene ancora una volta raccolto dal sax di Sepe, proiettando quell’arrangiamento frammentario e altalenante tra avanguardia sperimentale e tradizione sudamericana, con tanto di citazioni di Hasta siempre di Carlos Puebla, verso una corsa trascinante che nei tasti del Rhodes di Piero De Asmundis richiama il Davis dei concerti al Fillmore East. Come al solito Sepe non si lascia scappare la ghiotta occasione di lanciare un chiaro messaggio politico, ed ecco che al centro del brano fa capolino Che Guevara in persona, mentre pronuncia con calma fierezza il suo discorso anti-imperialista alle Nazioni Unite, l’11 dicembre del 1964, denunciando la continua violazione dello spazio aereo cubano da parte dell’aviazione USA, ‘gli Stati Uniti pretesero stabilire una nuova prerogativa arbitraria e illegale, quella di violare lo spazio aereo di qualsiasi paese piccolo‘, un tema che ad oltre cinquant’anni conserva intatta la sua drammatica attualità. Da un eroe moderno a un eroe dell’antichità il passo è breve nel mondo musicale di Sepe. Spartaco è forse il suo più grande idolo: lo schiavo che si ribella all’impero romano incarna più di ogni altro rivoluzionario il simbolo della lotta impari degli umili contro i potenti. Tuttavia non c’è rabbia nel Love theme from Spartacus di Alex North, quattordici volte candidato all’Oscar (da Un tram che si chiama desiderio a Sotto il vulcano), autore della celebre Unchained Melody. Composizione di epico romanticismo, divenuta sin dall’uscita del film di Kubrick un vero e proprio standard jazz col quale si sono cimentati musicisti del calibro di Bill Evans, Jusef Lateef, Ralph Towner, Jan Garbarek e persino Carlos Santana, al quale è strettamente legato lo stesso Gato, nella fase della sua carriera ritenuta calante dai critici più schizzinosi. Forse per i due musicisti Europa era una scelta ‘facile’, che ha segnato la fine delle rispettive ricerche, ma che nelle interpretazioni live dava comunque prova di una personalità mai smarrita. È la storia di un amore impossibile, desiderato e perso irrimediabilmente, ma è l’amore a dare il senso alla lotta di Spartaco, l’amore per la libertà, espresso qui con densa passione nelle note misurate del piano di Stefano Bollani, negli acuti commoventi del sassofono di Sepe, in un arrangiamento di lirico equilibrio e raffinatezza. Ma si torna subito coi piedi per terra, perché una canzone popolare venezuelana, Montilla, ci ricorda col suo ritmo sostenuto, all’incrocio tra Africa e Sud America, e ancor più con la teatrale e corposa voce di Lavinia Mancusi che le rivoluzioni si continuano a perdere, ancora oggi.
Come ha dichiarato Sepe, la grande impresa di Gato è stata quella di transitare nel mondo del jazz il repertorio della tradizione musicale della propria terra, le proprie radici, la lingua madre. Ed ecco che la classica canzone napoletana trova una nuova veste. Ascoltando il ‘sangue caliente’ che scorre nelle vene di Canzone appassionata di E. A. Mario, si capisce che Barbieri l’avrebbe interpretata volentieri, per il suo tumultuoso crescendo di tensione da delitto passionale, al centro del quale spicca una grande prova all’elettrica di Franco Giacoia, tra il sound latino di Santana e le spigolosità fusion dell’Allan Holdsworth dei Soft Machine.
Atahualpa Yupanqui è il terzo pilastro sudamericano da sempre nell’orizzonte sonoro di Sepe, chissà che un giorno non arrivi anche l’album interamente dedicato al compositore argentino dallo pseudonimo poetico e programmatico che vuol dire ‘Viene da terre lontane per raccontar qualcosa‘. Los ejes de mi carreta è una sua milonga triste, reinterpretata in anni recenti anche da Vinicio Capossela, che l’ha tradotta in italiano, col titolo di Abbandonato, nell’album Rebetiko Gymnastas. Sepe la trasforma in una gustosa danza da scuola di ballo dei Caraibi, tra rapide movenze sensuali e calda afa tropicale. Di Atahualpa Yupanqui è pure Io non canterò alla luna, versione in italiano di Luna Tucumana (1957), interpretata da Barbieri nell’album Under fire del 1971, col titolo Yo le canto a la luna, polverosa desolazione in un bar malfamato, vissuta tristezza e canto in punta di piedi, quasi di rassegnata sconfitta, ma anche di profondo rispetto per lo stile misurato da racconto in musica dell’originale, divenuta in seguito il momento più alto ed energico di Vite perdite. Forse è solo il ricordo indelebile di quella straordinaria versione, in uno dei migliori album di Sepe, a lasciare spiazzati al primo ascolto della voce di Dario Sansone, che messe da parte certe irruenze dei Foja, trova un timbro ebbro e rauco che discende direttamente dal prototipo degli anni ’50, aggiungendo nuove sfumature e ombre al brano. Nunca mas è la sola cover vera e propria, incisa da Barbieri nello storico Chapter One: Latin America del 1973, qui spogliata della sua carica percussiva tribale, della vocalità primitiva della foresta tropicale e del fraseggio free di note urlate, quasi stritolate. Sepe estrapola il tema dalla parte centrale del brano trasformandolo in una elegante coreografia retta dal ritmo sinuoso e scivoloso del piano di Tommy De Paola, che trasporta con virtuosa leggerezza il brano sul palco di un night di Buenos Aires.
Donne d’Irlanda conferma invece la passione di Sepe per il cinema di Stanley Kubric e per le musiche delle tradizioni popolari, in questo caso irlandesi. Il poema Mná na h-Éirean, composto da Peadar Ó Doirnín nel ‘700 e musicato due secoli più tardi da Sean Ó Riada, è stato portato al successo dai Chieftains e riproposto in mille salse, da Alan Stivell a Kate Bush e Jeff Beck, senza mai perdere la sua connotazione nordica. Oggi Sepe ne dà una versione inattesa, in cui il dolce e inconfondibile motivo, che dipinge ad acquerello i verdi campi solcati dai passi di malinconico cinismo di Barry Lyndon, si apre nella parte centrale (evitando così il rischio dello scivolone new-age) agli esperimenti dei primi album di Barbieri, come In search of the mystery e Obsession (1967), ancora informati al free e di più marcata influenza dell’ultimo Coltrane. Quella gaelica è solo una parentesi e si torna a ballare in un lento tango figurato, Naranjo en flor di Virgilio e Homero Exposito, risolto in un trio dalle tinte impressionistiche, con i due argentini Roman Gomez al piano e Roberto Lagoa alla voce e il sassofono di Daniele. Il musicista recupera qui l’atmosfera di sofferta solitudine narrata con viscerale presenza scenica da Enrico Caria in Abbascio ‘a Villa Comunale nell’album L’Uscita dei gladiatori (1991), come un attore che si disfa il pesante trucco nel chiuso del camerino, col viso solcato da lacrime aride (‘chi tene ‘e sorde campa felice, chi nunn’e tene va ‘nculo agli amici‘). Con Odio l’inverno capovolgendo l’originale di Bruno Martino, di cui recupera gli archi soffusi e penetranti, Sepe dichiara il suo amore per il sole latino, il mare, l’estate e il suo Capitone. Dopo averci scherzato a lungo nelle lezioni di jazz che hanno preceduto l’album A note spiegate, Daniele mette ora da parte la caciara goliardica di quella ciurma ‘in maggiore’, preferendo qui, come in tutto l’album, le atmosfere ‘in minore’. Ha esplorato così un mondo meditativo e introverso, fatto di malinconie e silenzi, tormento interiore e quiete meditativa, raffinatezza e ricerca del suono che lo ha portato a dare una delle sue prove migliori di sempre.
Credits
Label: MVM / Goodfellas – 2019
Line-up: Daniele Sepe (Sax tenor sax, quena, vox) – Lavinia Mancusi (vox) – Dario Sansone (vox) – Roberto Lagoa (quena, percussion, vox) – Roberto Colella (vox) – Antonio De Luca (vox) – Carmine D’Aniello (vox) – Luca Casbarro (vox) – Roberto Trenca (cuatro, charango) – Diego Moreno (classic guitar) – Franco Giacoia (electric guitar) – Peppe Frana (oud) – Raffaele Tiseo (violin, viola) – Stefano Bollani (pianoforte) – Tommy De Paola (pianoforte, Rhodes, Hammond, 1,2,4,6,7,8) – Bruno Persico (pianoforte, Rhodes) – Piero De Asmundis (Rhodes) – Andres Balbucea (Rhodes, 5) – Alessandro D’Alessandro (organetto) – Roman Gomez (Bandoneon, pianoforte, 6,7,10) – Aldo Vigorito (double bass) – Davide Costagliola (electric bass) – Robertinho Bastos (congas, berimbau, talking drum, percussion) – Antonello Iannotta (percussion) – Arlen Azvedo (percussion) – Nello Arzanese (percussion) – Antonio Marascia (percussion) – Hamid Drake (drums, 1, 2 left side,4,5,6,7,8,9,10) – Roberto Gatto (drums, 2 right side, 11) – Claudio Romano (drums, 3)
Tracklist:
- La partida (V. Jara)
- Song for Che (C. Haden)
- Love theme from Spartacus (A. North)
- Montilla (D. Sepe var. trad.)
- Canzone appassionata (E. A. Mario)
- Los ejes de mi carreta (A. Yupanqui)
- Io non canterò alla luna (A.Yupanqui)
- Nunca mas (G. Barbieri)
- Donne d’Irlanda Mná na h-Éirean (D. Sepe var. trad.)
- Naranjo en flor (V.Exposito)
- Odio l’inverno (D.Sepe)
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