Tempo da lupi. Diluvia. Il centro storico di Napoli è insolitamente deserto. Pochi coraggiosi sfidano le intemperie per raggiungere uno storico tempio della musica in Italia, l’Auditorium Novecento, sala di registrazione e antica sede della Società Fonografica Napoletana, fondata nel 1901 e divenuta pochi anni più tardi Phonotype Record, etichetta capace di avere in catalogo pilastri della canzone napoletana del secolo scorso, da Enrico Caruso a Gilda Mignonette, da Renato Carosone a Mario Abbate, da Sergio Bruni a Roberto Murolo, passando per Domenico Modugno, Claudio Villa e Fred Buscaglione. Un luogo magico, tornato a vivere nel 2018 grazie all’impegno di un gruppo di amanti della musica, che nell’ultimo anno ha visto un cartellone fittissimo che spazia tra i generi, colmando un vuoto nel panorama cittadino e non solo.
A tarda sera i Peter Kernel, duo formato dalla bassista e cantante canadese Barbara Lehnhoff e dal chitarrista e cantante ticinese Aris Bassetti, imbracciano gli strumenti e iniziano a suonare senza tanti fronzoli e presentazioni accompagnati da Marco Zaninello, batterista dei livornesi Appaloosa, “ma questa sera no!“, scherza Barbara. Aprono le danze della serata targata Rockalvi col frullatore spaccatimpani di He’s a Heartattack, prima traccia del primo album del 2008, con ritmo martellante e veemenza incalzante, al punto che la vibrazione degli altoparlanti, accanto ai quali mi ero accomodato seduto sulla moquette della sala d’incisione, quasi mi solleva da terra. Zaninello ha un drumming ideale per sostenere il duo, stasera trio, coi suoi colpi selvaggi e precisi, contraltare del rozzo basso punk di Lehnhoff, che scaglia raffiche come un mantra incendiario, mentre la chitarra di Aris s’invola su percorsi post-rock e bizzarrie noise. Talvolta il battito infernale dilata lo spazio come in una danza di dervisci e la band finisce in trance estatica, come nella delirante You’re flawless, in cui Aris si lancia in esasperati assoli glissati ed escursioni psichedeliche, ma poi stempera la tensione intonando l’acuto di Whitney Houston “and I will always love you, uh uh“, scoppiamo a ridere sorpresi e allora è Barbara a riprendere il microfono con le urla devastanti del finale, col ritmo che torna a pompare come un’apocalisse incombente, “you go on, and on and on“. Si divertono e fanno divertire coi battibecchi da coppia affiatata, “eravamo una coppia per 14 anni“, dice Barbara, che parla un perfetto italiano, “dodici!” corregge Aris, “per due anni tu non c’eri“, chiosa lei. In un’altra pausa, prosegue Aris “sì, abbiamo un nome di merda, ma dopo quasi vent’anni è tardi per cambiare“, “è tardi per troppe cose ormai…” lo incalza Barbara. Un gioco intimo a cui assistiamo e a cui siamo invitati a partecipare imbracciando una delle tante percussioni portate in scena, per contribuire alla dinamica ritmica come un autentico collettivo in improvvisazione. Paranoie metropolitane e nevrosi schizoidi elettrizzano le frustate punk di Panico, this is love! mentre, Bzzz, Pouf e Amen testimoniano gli esperimenti più estremi dell’ultimo album Drum to death (2023), con noise spinto e giochi con le manopole di un effetto che Barbara tiene attaccato all’asta del microfono, con sul fianco l’adesivo “Biere Neuve!” dal Festival di Strasburgo, spumeggianti come la pinta che consuma sorridendo. Con I’ll die rich at your funeral, dall’acclamato How to perform a funeral (2008), ci si avvia al finale tutti in pista a ballare con la band che chiama il pubblico a mescolarsi tra pedali, amplificatori e gli strumenti vintage che riempiono il fondo della sala, per il ritmo tribale orgiastico di Africa. Festoso rito collettivo, danza frenetica esaltante e liberatoria che fa rimpiangere che il concerto sia finito. A presto, cari Peter Kernel.
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