Tempo addietro se ne andò Jeff Buckley. E’ stato un nome, un artista e un anima fragile. E’ stato anche un figlio. Il figlio di Tim.
Oramai questo nome è solo una parola trisillabica per i più ma per chi ha orecchie per sentire e cuore per commuoversi è e sarà sempre un punto di riferimento.
Ma chi era davvero Tim Buckley? E cosa fece di così importante da diventare un’icona e di così labile da essere eclissato dal nome del figlio?
In primis era un ragazzo normale, con il viso lungo e quasi belloccio, folti capelli neri e una marcata fossetta sul mento. Le foto ce lo mostrano sorridente e spensierato ma sono molte di più quelle in cui appare triste, col capo chino, pensieroso. Quali pensieri albergavano nel cespuglio dei suoi capelli corvini? E quali sogni? Perché aveva un sogno Tim Buckley, quello di suonare la chitarra e divenire qualcuno.
E oltre al sogno aveva un dono. Aveva una voce di quelle che possono scaraventare un cuore nelle profondità degli abissi o innalzarlo fin sulle ali degli angeli. Fu notata dal manager di Frank Zappa che gli fece incidere il primo disco omonimo. Un lavoro che si attesta su sonorità folk e non osa più di tanto. Eppure da quel primo album quasi timido si iniziano a vedere tenui luccicori che diverranno i suoi lampi vocali.
Circondatosi di strumentisti valenti, Tim lavora a Goodbye And Hallo, con cui inizia a farsi notare ed ecco pronto Happy Sad.
Con Happy Sad la voce di Buckley è oramai matura e… e niente. La critica continua a snobbarlo e il pubblico non si accorge neanche di quello che diventerà, con gli anni, uno dei più apprezzati talenti vocali degli anni ’60. In anni in cui i Doors e i Jefferson Airplane incendiavano le arene e le folle, in cui le tastiere e le chitarre acide dominavano la scena, Tim Buckley proponeva una musica non facilmente apprezzabile se non da ambienti colti. Gli accenni jazz e le spericolate evoluzioni vocali difficilmente trovavano spazio tra la grande massa. Erano anni di sperimentazioni sonore e fra queste si annidava l’incubo della droga. Le ragazze vanno e vengono così come gli spacciatori e mentre queste due categorie si avvicendano nel salotto di casa, prendono forma il bellissimo Lorca e soprattutto Blue Afternoon, il trampolino da cui nascerà il salto stilistico di Starsailor.
Starsailor è il disco della maturità dell’artista, le armonie sono reti di ragno e i vocalizzi si spingono a livelli di difficoltà inediti. Le trame si vestono di semplici spazi eterei, delicati arpeggi, tenui cambi di tempo.
Ma Starsailor è il suo canto del cigno. Poche cose ancora e poi un’overdose se lo porta via. Si vantava nel dire che aveva smesso. Forse doveva smettere prima.
Gli anni cospargono la polvere del dimenticatoio sulla sua voce sin quando una delle sue canzoni più sofferte, Song to the sirens, non viene riarrangiata dai This Mortal Coil. L’Europa riscopre il menestrello triste e l’America continuerà a ignorare sistematicamente Tim Buckley, relegandolo sempre nel ruolo del padre di Jeff.
Ultimamente è uscita una raccolta, Antology, che ne raccoglie i suoi tesori. Fra le altre cose, oltre a Song To The Sirens, possiamo ammirare una stupenda Pleasent Street, con quella chitarra dodici corde che, insieme alla voce, era il marchio di fabbrica di Buckley; la primissima Morning Glory e No man can find the war. Una raccolta per scoprire un angelo e ricordare che i ’60 non furono solo Rivoluzione ma anche Delicatezza. Per ricordare un padre e un figlio che non si conobbero mai. Due caratteri totalmente diversi per due voci straordinarie e inimitabili. Le urla sofferte di Buckley figlio si intrecciano ai cambi tonali di Buckley padre ed è difficile dire quale delle due vola più alta.
Mi piace pensare che stiano cantando insieme, ovunque essi siano adesso.
commovente e veritiera.
complimenti…
adesso posso solo ascoltare una trascinante Pleasent Street
Emozionante focus. Grande taglio giornalistico. Per non dimenticare mai!
…da qui comincerà un salto indietro per la mia nuova “cultura musicale”..mi prendono sempre i tuoi pezzi…come la descrizione personale del tuo video di woodstock…che mi faceva emozionare…come al solito..come quel…ritorno a casa…