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Un angelo che parla alle stelle: Intervista a Paolo Saporiti

Per ingannare il tempo che ci separa dall’uscita del nuovo Ep di Paolo Saporiti proviamo a rivolgergli qualche domanda per conoscere un po’ meglio un artista con tanto talento da riuscire ad incantarti con una chitarra e la sua sola voce. Saporiti, cantante e musicista del gruppo milanese dei Don Quibol, esordisce da solista meno di un anno fa con un disco, The restless fall, che ha raccolto moltissime recensioni positive sorprendendo per una scelta non facile per i nostri tempi ma di grande impatto: una musica intima e personalissima.

Innanzitutto grazie del tempo che ci dedichi e per quanto possa essere banale, complimenti per il tuo disco. La prima domanda è quasi obbligatoria… come procede il nuovo lavoro?

 

Grazie a te e a voi per l’interesse! Bene, direi… Sono molto, molto contento. I brani sono in fase di masterizzazione ormai e, nel loro piccolo, sono anche già stati testati in sede di live. Come nel caso di The restless fall, anche qui, la veste grafica avrà la sua importanza. Caterina (Canebagnato Records), questa volta incontra i lavori di Paul Barnes, designer scozzese autore delle immagini scovate su Myspace da Caterina stessa. Ne sono veramente entusiasta.

Sarai accompagnato, nel nuovo viaggio sonoro, dalla violoncellista Francesca Ruffilli, dopo aver ascoltato Just let it happen (si può ascoltare dal MySpace) mi è sembrato che la sua presenza arricchisca molto il suono e lo renda ancora più avvolgente e caldo. Com’è nata questa collaborazione e cosa pensi possa dare al tuo lavoro?
E’ stato un incontro fortunato, neanche troppo casuale, alla fine. Volevo imparare a suonare il violoncello, giusto “due note”, per poter capire come potessero suonare i miei brani in compagnia di quello strumento e provare ad arrangiare. Credevo potesse trattarsi della “morte loro” ed in effetti è stato così, anche nella situazione live. Grande merito a lei che si è saputa vestire di un abito nuovo, da improvvisatrice ed arrangiatrice, oltre che performer. In un negozio di strumenti musicali sono incappato in un suo annuncio, da insegnante, e così sono entrato nella sua vita e lei nella mia e in quella dei miei brani. Sono stato uno dei suoi allievi. Lei dice per tante lezioni, io dico per 4/5. Ma la mia memoria non fa assolutamente testo e quindi deve aver ragione lei per forza! Una volta allievo, senza essere neanche troppo cosciente di chi potesse pararmisi davanti (ha veramente un ottimo curriculum lei, anche pop), le ho proposto di suonare qualcosa sull’embrione di R.F.. E’ venuta l’estate e poi l’autunno e abbiamo iniziato a provare. Io ormai, l’idea del violoncello, l’ho abbandonata ma se potessi consigliare uno strumento a qualcuno e una valida insegnante… Lei è fantastica, ed è entrata nei miei brani, nel mio mondo, senza usurparlo o sostituirsi a nessuno. Questo è quello che cercavo e che desideravo per me e per le canzoni. Sole, luce e lei li ha portati, soprattutto nel live.

Tornando invece a The restless fall ti chiedo innanzitutto se ti aspettavi i consensi ricevuti e quanto sono stati importanti per te e per il proseguimento del tuo lavoro.
Non sono religioso ma sono stati una vera benedizione. Non si può capire quanto in una situazione così e provando a percorrere una strada tanto difficile possano risultare importanti. Io non ho iniziato a fare musica per diventare famoso ma per rincorrere un sogno che lentamente, di giorno in giorno, si sposta di un pezzettino. Una volta era imparare a suonare la chitarra, poi avere la forza di cantarci sopra qualcosa, poi, passato il momento delle covers, riuscire ad esprimere qualcosa di mio e buttare lì una canzone, migliorarla, vederla crescere e, in ultimo, riuscire a completare un disco. Poi è venuto il gruppo (Don Quibòl), l’esperienza con loro, coi musicisti, con la loro voglia di contribuire e suonare sui miei brani, Francesca, una casa discografica, le recensioni, i problemi e le difficoltà di fare date e suonare in giro. Insomma è tutto un gran casino, devo dire, senza alcuna forma di ritorno economico o quasi. E’ tutta passione, come saprai. È una questione di messa a terra. Mi sentirei ancora più staccato dal mondo di quanto già non mi senta…

La critica più volte ti ha definito un cantante folk, avanzando quali referenti i nomi di Nick Drake e Jeff Buckley. Mi racconti quali sono i tuoi modelli, che musica ascoltavi da ragazzino e quale ascolti ora? E se tu dovessi definire la musica di Paolo Saporiti, come la definiresti?
Beh, hai già citato quanto di meglio per riassumere il mio mondo, anche se così, d’istinto, aggiungerei David Crosby e John Martyn. E poi magari Bruce Cockburn e Van Morrison. E Joni Mitchell, poi Smog, Will Oldham, PJ Harvey, Smashing Pumpkins, Iron & Wine per venire a tempi più moderni. In questi giorni sto ascoltando l’ultimo cd di PJ, e mi piace un casino, la trovo molto coraggiosa e spero che questo sia sintomo di un grosso cambiamento che deve ancora avvenire. Se anche una “rocchettara” tosta come lei arriva a fare un disco tanto intimo/intimista vuol dire che ce n’è bisogno e che la cosa è sempre più reale, e che tutta le gente si deve schiodare dai letti o dalle poltrone e mettere d’impegno ad ascoltare buona musica, magari con dei concetti e dei contenuti, oltre ai risultati delle vendite e ad un facile ritornello da ricordare. Un po’ più sentita e da ascoltare. Senza continuare a stressare me perché scrivo in inglese o banalità del genere. Io sono un cantautore e vorrei essere riconosciuto come tale un giorno, ecco tutto. Sarebbe già tanto.

Hai dichiarato che ti piace guidare per poter ascoltare la musica dallo stereo, che questo ti permette di isolarti dal mondo. Leggendo queste parole ho sorriso perché ogni volta che esco di casa porto sempre il lettore cd con me e molte volte preferisco camminare a piedi per avere più tempo per ascoltare la musica e pensare… Nel tuo caso però non solo l’ascolto della musica è un momento di riflessione, ma anche la composizione e questo rende il tuo lavoro estremamente intimo, direi autobiografico ma nel senso di un’autobiografia dei sentimenti… Non ti fa paura raccontarti così fortemente?
Autobiografia dei sentimenti. Paura di raccontarsi. Sto per scrivere una tesi in psicologia proprio su questo argomento. Hai ragione comunque, in quel caso ho omesso, sbagliando, il camminare col portatile in tasca e le cuffie in testa, fa parte anche di me. Io sono un libro aperto, o almeno vorrei esserlo, nella vita, nella musica e sul divano di casa e non. È una scelta che ho fatto, fa parte di una ricerca che mi sento di aver intrapreso. Ho lavorato per anni su me stesso per puntare a questo e così andrò avanti. Ricomincerò un’analisi personale tra poco, per poter diventare uno psicoanalista, proseguirò nel mio percorso come attore (anche se non ambisco alla professione). Sono convinto che questo mi possa far crescere sempre di più, nella speranza di poter diventare un uomo migliore. Vivere in contatto con quello che si è, che si prova istante per istante è quello a cui punto. Credo che un uomo che sa stare ed abitare in questo mondo bene, da solo, possa riuscire a dare agli altri (parlo di una donna, una compagna o dei figli ma anche amici e vicini e tutti quelli che incontra per strada) il meglio di se stesso e del mondo che ha incontrato fino a quell’esatto momento. Il rischio che corro è una vita un po’ da intellettuale ogni tanto, staccata dal mondo, il troppo amore per i libri e l’abbandono di una realtà troppo deludente e la musica mi caratterizzano. Magari i miei testi sono la mia redenzione da questo peccato di individualismo ma ho sofferto parecchio, fin ad ora, e vorrei tanto che le persone imparassero dalla storia e da quello che è capitato a me e che capita quotidianamente ad altri. La vita costa fatica e ascoltare musica è una conquista come tante altre, è un piacere che va coltivato, abitato e sofferto oltre che essere vissuto come sottofondo

Dopo aver ascoltato la prima volta The restless fall, ho pensato che fosse un disco da ascoltare in solitudine perché assolutamente intimo e interiore. È come una conversazione privata con un amico che nessuno può e deve ascoltare, dove piangere e ridere senza doversi nascondere. E quindi mi sono chiesta com’è un tuo concerto, come ti rapporti al pubblico, a tutto ciò che può distrarre da questo dialogo.
La mia idea di musica è quella di cui parli, della percezione e dell’immagine che hai avuto e che ti ha suscitato il disco. Vorrei tanto poter dare altrettanto nel live ma non so se ci riesco sempre. Sono ancora troppo piccolo e poco importante per poter avere tutta questa attenzione e i locali non sono spesso adeguati. Pago spesso questo scotto arrabbiandomi e cadendo vittima della frustrazione che provo. L’ ascolto è quello che è. Anche se di solito tutto funziona bene. Quello che penso di dare in generale, come presenza, come persona, sono la stessa cosa, però, in questi ultimi anni, è stato più complicato esserlo perché mi sono trovato completamente senza pelle e in quella condizione sei troppo scoperto per poter correttamente inquadrare il problema dell’arte su di un palcoscenico. Ora vedremo come proseguiranno le cose. Provo a fare arte e ad un certo pubblico convinto delle stesse cose vorrei arrivare. Vorrei del rispetto. Richiedo un certo tipo di sforzo all’ascoltatore come lo chiedo a me stesso quando ascolto gli altri.

Inoltre hai dichiarato di non conoscere bene la scena italiana. È ancora così? Non c’è nulla che abbia attirato la tua attenzione, che ti abbia colpito?
Tutto come prima. Anche perché fino a quando mi sentirò ghettizzato perché scrivo in inglese in un mondo globale, viziato, e filoamericano in tutto e per tutto come questo, non riesco proprio a non pormi in maniera infantile e di petto. Non punto alla santità. Alla sincerità sì però, e questo razzismo mi ha sinceramente rotto le palle.

Perché, secondo te, la nostra scena musicale è così “affaticata” rispetto a quelle straniere.
Perché i nostri ricercatori e pensatori vanno tutti all’estero? Perché a me vengono tutt’ora a dire che scrivo in inglese! Ecco perché. Come fosse un limite, una pecca, quando semmai è un tentativo di valicare le montagne che ci separano dal mondo, di incontrare quelli che in teoria lo fanno meglio di noi per quanto mi riguarda. Perché la nostra politica è morta?

Tu sei anche voce dei Don Quibol. Mi racconti come sono nati e quali sono i progetti in cantiere con loro?
Purtroppo in cantiere non c’è nulla attualmente. Troppi impegni di lavoro paralleli dei singoli componenti. A parte la collaborazione con Christian Alati che si sta già occupando della masterizzazione dei brani dell’ EP prevedo un momento di riposo per il gruppo volente o nolente. Si parla di un secondo cd, a venire, ma non saprei proprio dirti quando. Per ora ci soffro e basta. Il gruppo è nato, per me, fin dall’inizio, dall’incontro di tre forti personalità, come seguito o completamento di un progetto cantautorale senza palle (il mio) che ha incontrato due fantastici musicisti come Christian Alati e Lucio Sagone. Ho messo i miei brani in comune e li abbiamo arrangiati per quello che erano, arrivando a quello che sono. Risultato. Da un progetto per me di respiro internazionale, ora siamo fermi e di questo sono sinceramente tanto dispiaciuto. Tutto si è disperso in una marea di collaborazioni e altri piccoli o grandi impegni personali.

Ti ringrazio per averci raccontato qualcosa di te e della tua musica. Un grandissimo in bocca al lupo per il prossimo futuro.
Grazie

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2 commenti

  1. Realizzato il tuo desiderio di un dialogo bellissimo da regalare a tutti

  2. un’intervista splendida… complimenti

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