La luce delle immagini, insieme alle note di Third stone from the sun, ci raggiunge come il flusso dei frammenti di un astro in esplosione, la voce della chitarra di Hendrix e le ferree maglie intrecciate da Gustave Eiffel ci conduco attraverso la materia nella Parigi del ‘68 perché si possa com-prendere con lo sguardo la Storia lasciando che gli occhi ascoltino una storia. Così la visione di Bertolucci su i sognatori comincia ad abbracciarci, ad aprire una dimensione di visibilità in cui il mondo sfonda lo schermo per raggiungerci e toccarci con dita di luce.
The Dreamers è, soprattutto, un atto d’amore incarnato in uno sguardo amorevole, quello di un sognatore che si posa su un sogno e su anime sognanti. La magnificenza del saper fare di Bertolucci è dentro ciò che narra e per questo ha in sé lo stesso battito delle cose, dei gesti, dei pensieri e delle carni che rende presenti… la partecipazione del suo sentire è un fremito che percorre e dà calore ad ogni fotogramma.
È una complicità quella che si stratifica nelle immagini e che le rende perfette con il loro esser fatte d’anima. Queste immagini vibranti sono il terreno da attraversare per portarsi dentro la Storia e in seno al rapporto tra un insieme di tre coeso dalla cinefilia. La relazione tra Théo (Louis Garrel), Matthew (Michael Pitt) ed Isabelle (Eva Green) è una trama di seta attraverso la quale avvertire il tempo dominato dal con-fidare in un sogno… è una garza a maglie strette che lascia scrutare il volto della Storia durante una delle sue primavere… è una tela d’organza che ha tra le pieghe viscere stillanti lacrime e sangue, incubi e risa, aneliti e deliri, brame indicibili ed ideali da pronunciare ad alta voce o con un sussurro, da trascinare per i corridoi di un appartamento o per le strade. La casa che ospita l’amore tra i tre e l’amore dei tre verso il cinema ha camere fatte di una materia che in filigrana custodisce il tempo che scorre fuori dalle mura, il mondo che accade oltre la soglia, mentre le pareti racchiudono un universo intimo, che lascia fuori l’altro, tutto il resto, ma proprio così lo fa emergere, illuminandone l’assenza o la lontananza evoca la sua prossimità, il suo incombere… giacché possiamo ritirarci dal mondo solo in virtù del nostro appartenergli. In questa dimensione ovattata, eppure inquietante, si consuma un legame e ai suoi margini si dispiega il respiro sempre più violento della rivolta… alla luce delle pellicole, alla fiamma di una candela, al chiarore del cielo si aderge e compie la vita attraverso le passioni dell’anima e della carne, l’impetuosità del pensiero, l’agire travolgente e una musica penetrante. Come tutti i buoni racconti, anche questo di Bertolucci, che nasce dal romanzo The Holy Innocents di Gilbert Adair, dà alla luce e dà luce a molteplici sensi, dimensioni significanti e significative differenti nelle quali o dalle quali scrutare… una è quella le cui membra sono segni sonori. Lo schermo non isola o distanzia, non fa da fondo ma si fa varco e realtà presente nell’imminente anche in virtù delle note che, con i colori e le parole, nuotano nell’aria fino a sfiorare la nostra percezione. Insieme alle raffinate immagini e alle ec-citazioni, ci sono le sonorità a raccontare l’innocenza e la perversione, i volti antitetici della rivoluzione, uno spirito palpitante nell’individuo come nella società, la ferocia e la dolcezza lasciva. La Parigi delle barricate e l’intrecciarsi delle esistenze di Théo, Matthew ed Isabelle accade davanti ai nostri occhi, dentro i nostri sensi, anche grazie agli echi delle pellicole di Fuller e Godard, di Keaton e Hawks, di Browning e Bresson, alle urla di Janis Joplin e al delirio dei Grateful dead, ai graffi di Hendrix e alle seduzioni dei Doors. La colonna sonora è tanto la carezza di gola di Fransoise Hardy quanto l’annunciare a gran voce il New York Herald Tribune di Jean Seberg in À bout de souffle. In questa storia sono musica gli istanti muti, i movimenti dei corpi, le canzoni, il canto delle corde vocali e degli strumenti… e quello della celluloide, è musica quella di Polnareff effusa dal giradischi così come il suono di Pierrot le fou… allo stesso modo in cui nella Storia sono musica gli assoli di Jimmy Page e le grida di protesta per la guerra in Vietnam, la voce di Lou Reed e il suono di un sorriso in un assolato pomeriggio di giugno, le composizioni di Antoine Duhamel e il rumore del crollo del muro di Berlino. Le note ap-prendono sensi dai giorni e riversano senso negli attimi… non si tratta di sottofondo. Ciò lo comprendiamo osservando Matthew passare la sua prima notte in casa di Isabelle e Théo, La liberté guidant le peuple avente il volto di Maryl Monroe lo veglia mentre i Big Brother & the Holding Company s’insinuano tra i libri e i corridoi, tra le lenzuola e le ciglia, finché il turbamento viene annunciato dalla voce di Janis Joplin… I need a man to love… dilania quel canto senza pace, poi lo sguardo accarezza silente i corpi che riposano dietro la porta. La musica non è a margine, è una delle materie che compongono l’inchiostro denso con cui è scritta questa storia. La narrazione passa attraverso il suono quando il tip tap di Fred Aster porta i tre ad attraversare in nove minuti e ventotto secondi il Louvre e quell’immortale correre a perdifiato custodito dal bianco e nero di Godard, il suono narra quando Théo ed Isa accolgo nel loro legame Matthew sotto la voce della pioggia e quella di Bob Dylan, quando il giovane proveniente da oltreoceano fallisce con Scarface e consuma la sua penitenza lambito dalla tenerezza di La Mer che si mescola alla sensualità perturbante per poi tornare ad intrecciarsi con la voce di Jim Morrison e le urla di Isabelle dalle sembianze di una piangente Venere di Milo.
Il sogno si fa udibile e quindi percepibile attraverso i gemiti ingoiati da Théo davanti agli occhi ciechi di Greta, grazie alla morsa di Hey Joe, all’accettazione gridata in Freaks e alla voce della Piaf che dilaga nel ventre. Le forme parlano e raccontano col silenzio delle Luci della città e con il suono della danza della Venere bionda di Sternberg, con El paso del ebro di Halffter e col rimbombare della corsa nel Louvre. È la materia che risuona nei passi che traboccano dal Cappello a cilindro e nelle corde spossate da Sam Andrew, nella musica di Constantin che accompagna i Quattrocento colpi e nella voce de La regina Cristina, nel ruzzolare della piccola Mouchette e nell’infrangersi del vetro sotto il colpo della pietra.
“Non, rien de rien, non, je ne regrette rien”… con la musica ci viene offerta la prospettiva da cui guardare la carica della polizia e il pacifismo che si disfa con una mano che impugna una molotov.
Con la musica ci viene raccontato il mondo quando a Parigi era maggio.
Con la musica viene tessuto per i sognatori sognati un mondo.
Nella musica resta l’accadere del sogno, il farsi carne dell’incanto.
Soundtrack
Label: Universal Music – 2003
Tracklist:
- Third stone from the sun – Jimi Hendrix
- Hey Joe – Michael Pitt & The Twins Of Evil (cover Jimi Hendrix)
- Quatre cents coups – Jean Constantin (da Quatre cents coups di François Truffaut)
- New York Herald Tribune – Martial Solal (da À Bout de Souffle di Jean-Luc Godard)
- Love me please love me – Michel Polnareff
- La Mer – Charles Trenet
- Song for our ancestors – Steve Miller Band
- The spy – The Doors
- Ferdinand – Antoine Duhamel (da Pierrot le fou di Jean-Luc Godard)
- Dark Star – Exclusive Band Edit (cover Grateful dead)
- Tous les garçons et les filles – Francoise Hardy
- Non, je ne regrette rien – Edith Piaf
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