L’aria scura e le ferite di luce lentamente si fanno sature del canto delle Sirene… parole non s’odono giacché la suadente voce dell’abisso non si articola in sillabe, ma in suoni di materia opalescente, concrezioni di senso che s’insinuano nel flusso del sangue per ritrovare il mare.
È questa voce dell’onda e del legno, dell’acqua e della carne a vestirci i piedi con “scarpe sbagliate”, a portare all’anima la carezza di un “abito rosso stretto alle spalle” per condurci, così ammantati, al cospetto dello spettacolo di perle e cristalli, del loro riunirsi in un filo per mostrarsi “compagni di un unico giro che insieme invecchieranno”. Io sono metà… si resta in ascolto di questa coscienza che fa di un sussurro una lama, si stringono a sé i segni e l’odore di chi abbiamo amato e si respirano i tagli.
Solo le corde di un ottocentesco contrabbasso, solo le corde vocali… perché così la musica resti nuda, perché sia la sua essenza a venire ad essere.
L’arco di Ferruccio Spinetti sugge incanto dall’albero fatto strumento, ne fa affiorare la linfa… ora musica, canto di radici che af-fondano nell’anima bellezza. È nella gola di Petra Magoni che trovano la loro terra queste radici, per far fiorire lacrime e gemme, per nutrire rami capaci di far sorridere i cieli e i volti. Le mani di lui e l’eleganza ammaliante di lei si legano allo sguardo, lo inchiodano a quei movimenti che disegnano e adergono mondi e regni per i suoni. E i suoni sono quelli nati da poco così come quelli giunti attraverso le ore dal XVI secolo, sono quelli che parlano lingue altre e lontane oppure dicono la parola ordinaria che d’improvviso si fa stra-ordinaria, sono quelli che si confondono e fondono con l’ironia e con la memoria raccontando di come destrutturando e distruggendo si possa costruire, di come portarsi al fondo possa voler dire raggiungere le vette dell’idea.
Chico Baurque incontra i Police, De Andrè il Quartetto Cetra, Gloria Gaynor Gigliola Cinquetti… tra note e parole tessute in nuove trame. Ma, tra questi stessi fili, corpi di carne trovano il luogo in cui dialogare occhi negli occhi. I due musicanti intrattengono un colloquio che tramuta assenze in presenze, che disvela anime sconosciute, abitanti invisibili di accordi e versi noti, per poi farsi di-scorrere…un con-fluire e un comunicare che porta Petra Magoni e Ferruccio Spinetti ad incontrare Nicola Stilo e Paolo Benvegnù. È un incontro che si consuma, più che sul palco, nei recessi delle loro e delle nostre anime… è un toccarsi per farsi reali, per fare del reale meraviglia.
Il flauto traverso di Nicola giunge come un soffio non ad adornare la musica, ma a denudarla ancor di più, mentre le corde di Benvegnù in punta di piedi le si avvicinano al petto per iscrivervi poesia.
Petra si china quasi a cantare alla bocca aperta del contrabbasso, a trovare nel suo ventre l’aria con cui alimentare il canto e basta una mano che accarezzi la chitarra perché in controluce mostri la sua beltà l’Anima animale, basta uno sguardo traboccante di luce e delle dita sapienti perché la musica si faccia culla, Ninna nanna che ponga pace tra le pieghe e le piaghe delle viscere.
“Tutto resta ed è normale”, lo si apprende dentro quello che È solo un sogno per poi ritrovarsi ad assaporare l’incanto, guardando un uomo inchinarsi alle e sulle corde per dire di Catherine, di quanto sia lunga la notte, ma più sciocco il mattino… per gridare che non importa restarsene fermi per sempre, se questo significasse essere un fiore che trovi la sua pioggia nell’amato.
Un attimo, solo un attimo, per ritrovare il respiro. Poi è esserci insieme, ancora.
Otto mani diventano dieci, quattro bocche diventano cinque voci che raccontano de La Cava e del suo ritmo, delle Cime Domestiche. Monica Demuru sopraggiunge per cantare le altezze e portare l’abbraccio di una ninna nanna sarda.
Sopraggiunge anche il silenzio, ma di nuovo viene rotto. Una luce a forma di luna spezza il buio mentre le voci del legno e della gola ne indicano agli occhi la pienezza. Guarda che luna… un bimbo lascia la sedia per poggiare la sua testa sul bordo del palco e guardarla con gli occhi sgranati quella luna cantata, quel canto di cielo, che rimane, anche quando l’aria torna definitivamente a farsi muta, poiché resta la musica del senso e del battito, della carezza e della luce.