Uno scrigno di legno e rami invisibili da cui pendono non bocche di fiore né mani di affusolate foglie, ma tracce di uomini, segni di storie, lembi di stoffa colmi di vite, rete piena non di mare ma di scarpe, passi compiuti che muti narrano cammini impervi. Fin dal principio non c’è un drappo cremisi e neppure un velo a sottrarre allo sguardo questo scrigno abitato dalle evocazioni partorite dal gesto di Kounellis. Fin dal principio c’è un luogo aperto, libero da costrizioni e limiti… una speranza, una preghiera sussurrata senza parole per quei luoghi co-stretti nella e dalla morsa dei muri, del filo spinato, dei ceck-point.
Nel silenzio di questa invocazione si fa strada il suono del verbo e della viola, della scrittura e della musica. Una per una scivolano e scorrono tra il pubblico le persone che hanno scelto di raccontare la storia di Ramzi Aburedwan. Ebrei e mussulmani. Israeliani e palestinesi. Insieme. Insieme a raccontare una stessa storia, a dire l’ingiustizia, a non tacere l’orrore, a dare speranza. Prendono posto nello spazio plasmato da Kounellis il quartetto d’archi norvegese Trondheim Soloist e il cornista Alessio Allegrini, per dare respiro alle musiche create dalla compositrice di origine azeirbajana Franghiz All Zadeh. Prendono posto Moni Ovadia e il suo profumo di teatro, l’attore palestinese Mohammad Bakri ed Amira Hass, corrispondente di Haaretz, unica giornalista israeliana a vivere in Cisgiordania. Prendono posto le immagini in movimento di Marco Dinoi. Prende posto lo stesso Ramzi Aburedwan e l’ensamble Dal’ouna, composto dagli allievi e dai maestri della scuola Al Kamandjati. È proprio per dar voce al battito di Al Kamandjati che Gino Barbieri e Oscar Pizzo hanno intrecciato le sensibilità di artisti e intellettuali, perché fosse realtà condivisibile, perché si sapesse la sua storia, fusa con quella di un individuo e di un popolo.
La musica è un diritto di tutti, non è né può divenire un privilegio. Questa è una delle anime del Violinista (Al Kamandjati). E la musica comincia ad effondersi, insieme alle parole, insieme alla luce dei fotogrammi. Cominciano ad intrecciarsi voci, canti di labbra, legno e corde, il languore della fisarmonica, il soffio passato attraverso l’ottone, le immagini. In questo tessuto ci si ritrova atterriti, si perde il respiro e la speranza in una lacrima…per poi riscoprire ossigeno e fiducia nella bellezza, grazie ad essa. In questo ricamo si scorgono occhi d’ebano incastonati tra rughe, volti incorniciati dal velo e sguardi di bimbi accompagnati dal pianto. Si ascoltano le storie degli anziani che a fatica tornano nelle loro terre espropriate per trovare abbattute da una furia crudele le case e gli ulivi messi a riposo nel terreno e curati tutta una vita. Si sente la disperazione di chi non ritrova la sua dimora né il suono del vento cantare tra i propri rami, una disperazione che porta a lasciarsi morire. Si guardano le donne in fila con i figli tra le braccia a cui istante dopo istante viene sottratto il rispetto. Si intravede un orrore che lacera e fa disperare, afferra alla gola e stringe quest’orrore perpetrato dai figli di chi sulla propria pelle e nell’anima ha subito la più grande crudeltà dell’uomo. Soccombe la speranza lì dove la follia feroce partorisce se stessa, rendendo le vittime carnefici e i carnefici vittime. Ma la musica di Ramzi e Al Kamandjati si insinua ed avvolge insegnando con pazienza e dolcezza, con fiducia e grazia, a sperare, anche lì dove l’empia atrocità si compie.
Ramzi, nato a Betlemme ma costretto a vivere con la sua famiglia nel campo profughi di Al Amari a Ramallah, aveva otto anni quando, tornando da scuola, ha conosciuto per la prima volta la morte, quella del suo compagno di banco, del suo migliore amico, raggiunto dal fuoco aperto dai soldati israeliani, chiusi in un palazzo. Ramzi comincia a correre e raccogliere pietre, a lanciarle…non c’è nessuno davanti a lui, le finestre da cui sparano i soldati sono irraggiungibili da quelle mani di bimbo, da quel dolore di bimbo…ma lui le pietre continua a lanciarle, contro l’aria satura di ingiustizia, verso quel niente costruito dalla disumanità. Un giornalista di Reuters era lì e con la sua macchina fotografica ha fermato uno dei molteplici inizi della prima Intifada, quella delle pietre. La sua infanzia e la sua prima adolescenza Ramzi le ha passate lanciando odio alla volta dei carri armati finché non ha incontrato la viola grazie a Mohamed Fadel, professore di musica palestinese rifugiato ad Amman. È quest’uomo gentile, che porta arte e bellezza ai bambini e agli adolescenti, a costituire una chiave di volta nell’esistenza di Ramzi che verrà condotto dall’abbraccio della musica tra le fila della West-Estern Divan Orchestra, fondata da Daniel Barenboim ed Edward Said affinché giovani ebrei ed arabi potessero imparare a suonare per far cantare gli strumenti fianco a fianco.
Passando per Londra e l’America, il giovane Ramzi approda a Parigi, da qui di tanto in tanto fa rientro nella sua patria, a Ramallah, dove l’aria del campo ammanta di una veste sbagliata i bambini, ma in lui avanza forte il desiderio di vestire questi bimbi di pace e colore, di ridar loro l’opportunità di far sogni e giocare con la meraviglia. È così che nasce Al Kamandjati, con la voglia di donare speranza a quelle anime dagli occhi grandi che troppo presto l’hanno smarrita, se la sono vista portar via, sciupare, imbrattare, dilaniare. Nel settembre del 2004 le prime lezioni di musica in tre campi profughi palestinesi, il coraggio e la tenacia per andare avanti sorgono dai disegni dei bambini…bastano pochi incontri con gli archi e sui fogli non compaiono più tratti che raccontano la guerra, non più carri armati né l’eco di un dramma che si consuma nella quotidianità delle famiglie, ma strumenti musicali, fonti di suono capace di condurre presso la bellezza.
I più vari musicisti si uniscono per insegnare la sapienza necessaria a dar voce alla viola, al violino, al violoncello e alla fisarmonica. Le lezioni si diffondono in Palestina, poi in Libano e in Cisgiordania.
La musica ha affrancato dal giogo dell’odio Ramzi, gli ha insegnato un altro modo per combattere, per difendere il suo popolo e la sua terra, per preservare e salvare la dignità, quella di tutti, e la libertà, quella di ognuno. È il potere salvifico dell’arte, della musica, quello che Ramzi vuole portare ai bambini che vivono nei campi profughi perché imparino a difendere la loro cultura con la cultura, la bellezza con la bellezza, perché capiscano che non è con una bomba, non è con la morte, non è con altro sangue che l’orrore si lava via, che le ingiustizie assordanti tacciono, che la pace risorge.
L’esercito israeliano abbatte le case e distrugge i terreni coltivati non appena occupa nuovo suolo, lo fa perché sia per tutti lapalissiano il fatto che indietro non si torna, che il passo appena compiuto non è reversibile, è così che un popolo si sente s-oppresso non solo contando i suoi morti, ma anche vedendo la sua identità cancellata ad ogni passo, vedendosi trasformare in un vuoto, in un nulla, osservando i propri simboli sgretolati da gesti che ignorano la pietà. La resistenza allora è quella che strappa dalle mani livide dell’oblio quei simboli, quell’identità. La resistenza la si fa proteggendo e custodendo le proprie tradizioni, la propria arte, la propria cultura. La resistenza la si fa con la musica, diritto e bene di tutti, prendendo in mano non fucili o bombe, ma violini.
Questo raccontano Moni Ovadia, Amira Hass, Mohammad Bakri, Janis Kounellis e tutti i musicisti saliti sul palco. Questa verità porta avanti Ramzi Aburedwan nella sua terra, per rendere più luminosi i giorni dei bambini e di tutti quei palestinesi e quegli ebrei che con il rispetto reciproco e la lotta fianco a fianco contrastano la follia, che si stringono le mani, che le affondano nello stesso pane, desiderosi di pace e dignità, di libertà e giustizia.
Scorre questa storia mentre i suoni erompono dalle corde, dal legno e dalle gole, evocando l’utopia di Dostoevskij…forse la bellezza salverà il mondo, forse la bellezza ogni giorno lo salva trascendendo gli orrori, lasciandosi scorgere ovunque a testimoniare la preziosità non scalfibile del sentire, dell’esserci.