Via Cisterna Dell’Olio. Ci sono luoghi cha hanno alchimie fuori da ogni logica, quasi a voler lanciare una possibilità di abbandono ai giochi del destino. Una lingua di storia sventrata da tre vicoli che nascondono nelle viscere vecchie cisterne per la conservazione dell’olio, in un tempo smarrito. Napoli, ovvero la città del tufo. Una natura così porosa da accogliere e disperdere, inevitabilmente. Illuminazione scarsa, silenzio notturno rotto solo dai passi di chi conosce bene il fermento del cuore vecchio ma inarrestabile del centro che sembra annegare tra l’antico di palazzi e memorie.
Il cinema del primo film, la tappa obbligata del ritorno a casa, il laboratorio delle forme del cioccolato, qualche antiquario, un negozio di note ancora custodite dal vinile, locandine colorate ovunque a celebrare l’incrocio tra le culture… del resto pochi passi più in là troneggia Palazzo Gravina e le vene della Facoltà di Architettura, e ancora oltre il vecchio monastero che dall’eresia della Manifattura dei tabacchi si è vestito a culla della Facoltà di Lettere e Filosofia… uno strano triangolo che sa ancora suonare e non dimentica l’importanza delle “zone sociali occupate”.
Esattamente in questo luogo il preludio di un’estate consegnò alle mani il singolo di una band sconosciuta: Plastic City dei JoyCut. Arrivava da qualcuno. L’invito era per un ascolto. Strane vibrazioni e la percezione di una personalità in fieri di tutto rispetto. Un’onda d’urto di referenti a mescolarsi non in un inutile esercizio di stile, ma come una ricerca e un’esplosione di una dimensione originale e dannatamente consistente, tattile, infuocata: la strafottenza del brit, la condensa concettuale di Drake e Cure, le isterie psichedeliche delle grandi pagine del passato, la sperimentazione convulsa di Radiohead e Archive. Tutto questo sarebbe emerso in forma definitiva con l’arrivo dell’album d’esordio (novembre): The Very Strange Tale of Mr. Man (Estragon/PillowCase Records). Una lenta conquista. Una delicata conoscenza di un universo sonoro in cui l’etica diventa un imperativo categorico dettato dal cuore. Cinque ragazzi che sfumano l’identità in un concept che ha dato forma all’alieno verde che scopre nella purezza degli occhi dei bambini un futuro possibile, che aspetta favole che sappiano esser ricordi dolci contro il vuoto della velocità del tempo che ammazza. La forza delle idee, dei sentimenti. La voglia di unire tecnica, istinto e un’attitudine che seduce e lancia smorfie a chi la costruisce a tavolino sul niente.
JoyCut, attesi alla prova live dopo l’approvazione guadagnata, conquistata.
Le cavità sotterranee del Velvet rimbombano di basso, vengono graffiate da due chitarre deliranti con lucidità, si lasciano attraversare dalle virate di tastiera e dai tonfi di batteria. Divagazioni, improvvisazioni… tanto per scaldare, del resto ci avevano avvisati: “Come un occhio che si apre e inizia a mettere a fuoco ombre e figure… nei nostri spettacoli dal vivo la dimensione strumentale è molto presente”. Eppure la sorpresa è spiazzante quando l’intro di Plastic City diventa un minutaggio così dilatato da sfumare ogni orientamento. Yokono, Come on, Mr.Man superano le difficoltà di un ambiente che vorrebbe collassare investito da tanta potenza elettrica, la struttura sembra voler dominare la voce… ma non la vince!
Shake your Shape è introdotta da cinque parole che qualcuno stringe fino a renderle un tenero ricordo sulla scia di una melodia che sa mischiarsi alle diavolerie di strumenti che vagano delineando un’atmosfera ipnotica, ma tenendo il timone sulla rotta della poesia.
La musica non è solo mercato. La musica è nomi, volti, coraggio, fiducia nei progetti, purezza dei gesti, sacrifici sorretti da competenza e stile. Oltre la cortina delle apparenze… la sostanza sa preservarsi e crescere.
Una notte di febbraio, freddo. In una delle vie della plastic city occhi, mani, battiti e sogni si sono mischiati. Mr. Man ha regalato la sua dolcezza, i suoi disegni colorati, le sue speranze affidate alle note. (Lost Gallery)
E’stato un bel concerto anche se penalizzato da un acustica a dir poco imbarazzante.
Peccato, perchè i pezzi sono pregni di atmosfere a cavallo fra Joy Division e qualcosa di “moderno” ed andavano apprezzati pienamente e invece, con i soliti drammi di amplificazione, echi assurdi e overdrive, qualcosa si è perso.
Musica con la “M” maiuscola ma, soprattutto, tanta attitudine.
Per il prossimo concerto, confido in una location più appropriata…
Come ha scritto Amalia i problemi non hanno “vinto” i JoyCut. Sono stati più forti di tutto. Hanno una densità, una tecnica e un cuore eccezionali. Onorato di averli visti all’opera, BAND GRANDIOSA