Dieci brani pop intelligenti, melodici, raffinati, compiuti, emotivi: è quello che vi capiterà di ascoltare in un buon progetto senza strafare, senza velleità particolari.
Con umiltà e gusto gli Stella Diana firmano davvero un buon esordio e
A pochi mesi dall’uscita di Supporto Colore, un lavoro eclettico, fresco ed ispirato tra gusti pop, scorribande shoegazing ed echi new wave, incontriamo gli Stella Diana, formazione di punta del panorama indie partenopeo e proviamo a conoscere meglio i chiaroscuri della loro musica, indagando tra le loro influenze, poetica e ricerca sonora.
Stella Diana, partiamo proprio da questo nome che sembra uscito fuori da una lirica del Dolce Stil Novo: cosa vi ha ispirato e qual è la motivazione di questa scelta?
Dario: Non so, ho sempre amato dare ai miei gruppi nomi da donna.
Giacomo: Siamo partiti alla ricerca di un nome delicato e femminile… documentandoci abbiamo scoperto che era un verso di un’antica canzone popolare napoletana “michelemmà’”: In realtà “stella diana” è citata in più canzoni.
Dario: Già, tra l’altro è anche una poesia del Guinizelli.
Giacomo: l’idea ci piacque subito perché sarebbe stata il solo riferimento alle nostre origini avendo in mente di stravolgere un po’ il concetto di canzone popolare italiana.
Nell’anno appena concluso avete esordito per
Dario: Conosciamo Paolo ormai da quasi dieci anni, ho suonato con lui nel primo disco dei Blessed Child Opera, il suo progetto musicale. Ci è sembrato naturale collaborare in quanto abbiamo vedute musicale molto simili e tra l’altro come arrangiatore ci ha dato anche una grossa mano in studio.
Giacomo: Sai, tra alti e bassi, stop inevitabili e cambi di line up, alla fine, circa 2 anni fa, ci è parso chiaro che era il momento giusto. Ormai eravamo coscienti di poter presentare nel modo dovuto la nostra musica dal vivo, prima ancora che su un disco. A quel punto abbiamo deciso di contattare Paolo.
Dario: Di questo dobbiamo ringraziare Luigi Cozzolino, grafico di grande talento nonché frontman di un altro gruppo validissimo della Seahorse: gli El Ghor. Luigi ha avuto la massima libertà nell’ideare l’artwork. Ha ascoltato la nostra musica e ha sfornato qualcosa tra il Bauhaus e la new wave più oscura. I colori usati riflettono benissimo quel che noi siamo.
Giacomo: Io sono rimasto stupito di quanto avesse compreso il concetto più generale e profondo non solo dell’album. Ha intravisto ciò che dentro di noi urla continuamente ma davanti a tutti lo fa invece sommessamente quasi sussurrando.
Giacomo: I riferimenti sono molti per ognuno di noi. Ride, Syd Barrett, dark e new wave. Personalmente amo i Joy Division e Andy Rourke il bassista degli Smiths e questo lo si avverte nelle mie linee di basso sempre molto chittarristiche e presenti nei brani, anche perchè all’inizio eravamo nati come band ad una sola chitarra e l’intento di Dario fu quello di valorizzare molto il basso.
Dario: Il fatto è che alcuni di questi brani, nati comunque quasi tutti da spunti miei di chitarra o dal basso di Giacomo, hanno avuto una gestazione piuttosto complessa. Ci lavoriamo su per mesi interi, a volte per anni finché non ne siamo completamente soddisfatti. Una mano viene anche da Raffaele, il vero arrangiatore del gruppo che ha una visione d’insieme più concreta che aiuta a definire meglio le coordinate del pezzo che stiamo suonando e a velocizzare il tutto. Alla fine poi, fatto il pezzo, devi comunque valutare la sua resa a livello sonoro e ti garantisco che abbiamo lavorato sul nostro suono come dei matti. Ti ringraziamo per aver notato una certa diversità nei pezzi; questo è un discorso al quale teniamo molto. D’altronde è inevitabile che le tue influenze escano fuori quando scrivi musica. Neve, ad esempio, è figlia dei miei influssi pumpkinsiani giovanili e della mia ossessione sonora per Siamese Dream ed il noise. Poi ci si evolve e paradossalmente torni sempre più indietro con gli ascolti. Vero è che senza Kevin Shields, Daniel Ash dei Bauhaus e Mazzy Star perderei molti punti!
Dario: Mandarancio è forse per me il brano musicalmente più mazzystar/Cocteautwinsiano, se mi passi il termine, del disco. Il testo vive sempre sui miei argomenti preferiti: l’impossibilità di comunicare ed i ricordi da custodire gelosamente e si barcamena nei miei disperati tentativi di avvicinarmi ai miei modelli quali Dino Campana e Rilke. Faccio una premessa e dico che l’italiano è forse l’idioma più difficile da musicare in ambito rock ma allo stesso tempo ha una musicalità inarrivabile quando trovi la chiave di volta, vedi ad esempio gli Scisma, gli Area, i primi due dischi dei Quintorigo, Battisti versione Panella o il caro vecchio Rino Gaetano. Da parte mia, cerco di esprimere quello che sento e cerco di non essere scontato o banale (o almeno ci provo) con le parole che uso. Ho più dimestichezza nello scrivere di sensazioni interiori e stati d’animo che vivo in prima persona che descrivere un panorama autunnale con foglie che cadono e rondini che fuggono. Vorrei che i miei testi fossero, se necessario, uno specchio ulteriore per chi ascolta, un amplificatore di sensazioni, nulla più.
Dario: 26 Marzo è un pezzo effettivamente un po’ ruffiano se così possiamo dire, anche se non è assolutamente stato deciso a priori. Sai, ogni tanto non è poi malvagia l’idea di riprendere la classica forma canzone strofa-ritornello, cosa che invece è scarsamente presente nella nostra produzione. L’abbiamo composta così, poi visto che girava… Riguardo alle influenze, tutti noi italiani in musica, che piaccia o no, paghiamo dazio a Battisti, che musicalmente oggi è ancora avanti di un paio di decenni, sebbene io preferisca il periodo sperimentale da Don Giovanni in poi. Apprezzo moltissimo Tenco del quale abbiamo fatto anche una cover, mentre pur stimandolo come artista non impazzisco per Battiato, gli preferisco senza dubbio Ivan Graziani…
Giacomo: Sono emozionato e un po’ confuso ma sicuramente anche felice per quello che dici. Probabilmente il mio modo di suonare è per me il più naturale essendomi avvicinato al mondo della musica suonata proprio ascoltando i Joy Division, che rispecchiano in toto quello che ho provato e provo. Comunque la crescita e la ricerca del suono e di una strumentazione a me consona ha richiesto tempo e anche un po’ di casualità… ora suono un Fender jazz che amo fin dal giorno che l’ho provato.
Dario: Io in realtà ho tre ragazze, una fisica e due un po’ diverse. E l’attenzione che do alle mie chitarre è maniacale. Sia la mia Talman (che è una specie di Mustang ma ampiamente modificata) che la mia Jet king (un bel misto tra una Tele e una Les paul) vanno lucidate e curate. Ci devi fare conversazione per far capire loro che dovranno raggiungere quel misto tra Kevin Shields, Daniel Ash, Keiji Haino, Django e Syd.
Massimo: Il tour in Spagna è stata indubbiamente una delle esperienze più belle che abbiamo vissuto e per questo dobbiamo ringraziare il nostro tour manager Marco Morgione che si è occupato davvero di tutto nei dettagli. Che dire?
Raffaele: Sì, la risposta è stata positivissima! C’è un’attenzione profonda verso la musica e i gruppi nuovi lì, rara che noi che siamo un po’ troppo vincolati a mode e tendenze..
Dario: Già. Hanno apprezzato molto il fatto che cantiamo in italiano, al contrario sarebbe stato problematico se avessimo usato l’inglese. Hanno considerazione per chi rispetta le proprie radici. Di aneddoti ce ne sarebbero davvero troppi ma basta citare l’arrivo alla nave in partenza da Civitavecchia che abbiamo bloccato e fatto partire con 30 minuti di ritardo inscenando una pantomima napoletana dovuta a ritardi vari. Giusto per farsi un idea.
Grazie mille a te per averci concesso quest’intervista.
…me ne hai parlato da tempo.
E riesci a incuriosirmi.
Devono essere in gamba…