“Il poeta sente l’angoscia della carne, la sua cenere” (Marìa Zambrano)… La cenere e le fiamme insieme sente e fa sentire il poeta, le carni come vampe, come polveri, residuo di un desiderio, di una dolce voluttà, di un’inquietudine, delle contorsioni e degli aneliti dell’anima. A volte un cantore, un musico, che con le note tesse i cieli e le loro stelle tremanti, consegna il sangue tramutato in cipria al vento, il fuoco all’aria e riversa nelle vene parole liquide. A volte, stretto in una giacca stropicciata, un corpo può fare in gola del dolore un canto e trasformare in suono rimembranze e vivide sensazioni. A volte l’uomo cercando l’autentico disvela bellezza. Forse è proprio la ricerca di un’autenticità che non abbia paura di portare il peso della libertà ciò che ha nutrito Damien Rice e la sua arte, ciò che lo ha condotto a scolpire coi respiri incanti palpitanti.
Il giovane irlandese, nato e cresciuto sulle rive del fiume Liffey, il suo primo abbraccio dal mondo l’ha ricevuto il 7 dicembre del 1973, nel 1991 invece fu lui a stringersi alla musica con una carezza, quella determinante compiutasi con un legame nominato Juniper. In un gruppo che evoca i profumi del ginepro Rice si ritrova a vivere le sue prime esperienze musicali con accanto compagni di scuola, amici in cammino lungo uno stesso sentiero, quello che nel 1995 ha portato ad un primo ep indipendente, Manna, un insieme di canzoni acustiche che fece loro guadagnare l’attenzione della PolyGram e, nel 1997, un contratto che prometteva sei album da sognare e creare. Passa un anno, due singoli (Weatherman e The world is dead) prendono corpo e qualcosa comincia a scricchiolare, fanno attrito le aspirazioni del cantautore con gli ingranaggi dell’etichetta, che vuole far fare al progetto i conti con la dimensione commerciale. Resistenze e dissidi si sono trasformati via via in crepe, poi in rottura, definitiva, a ridosso della registrazione del primo album. Rice non si riconosce più nella forma che il suo amore per la musica ha preso e non può far altro che abbandonare quella forma, lasciarla essere qualcosa di diverso da lui, così vive la separazione dal gruppo, che si veste di un nuovo nome (Bell X1) e prosegue il suo percorso. Il distacco si traduce in bisogno di esperire una lontananza reale, fisica, si insinua la necessità di un viaggio che possa essere occasione per perdersi e ritrovarsi, per mettersi alla ricerca. Si volge all’Europa il giovane Rice, ne attraversa le terre e le brume, i colori e gli echi, si sofferma in Toscana e infine ritorna in Irlanda, accompagnato da nuove idee e pulsioni. Il suo rimettersi in viaggio verso le origini, il suo tornare ad esse, scandisce lo spogliarsi della sua musica, dà il ritmo al levare dei veli, all’emergere dell’essenzialità. I nuovi slanci che lo posseggono danno corpo ad un demo che arriva a David Arnold, il produttore di Björk; la voce di un angelo caduto lo conquista e lo convince a sostenerne i voli. E’ grazie ad Arnold che Rice riesce a costruirsi uno studio mobile in cui può finalmente prendersi cura delle sue visioni fatte di note, colorare con le corde sogni e battiti.
The blower’s daughter annuncia O. “I can’t take my eyes off of you”. La figlia del vento sussurra bellezza ed è impossibile arrestare le carezze date agli occhi da questo suono ammaliante. “I can’t take my mind off of you”. Ci si lascia avvincere, ghermire da una dolcezza che brucia. È il 2002 e la prima creatura di Damien Rice innamora con dieci abbracci di musica, l’ultimo nega la fine e si prolunga fino a trasformare il silenzio ancora in canto. O è un monile che sa di legno profumato, ricamato dalla sapienza del levare, dalla pazienza, dalle parole ferme in gola, dai fremiti nella bocca, dai gesti che fanno della cura un ritmo e poi una melodia. O è il tepore di una coperta che dalla schiena non toglie brividi, è una trapunta fatta di lembi di ricordi, di passioni sfilacciate, di lacrime di cristallo cucite insieme da un filo rosso di sangue. Questo cerchio d’inchiostro, movimento infinito di partenze e ritorni, custodisce le tenerezze e le atrocità dell’amore, le carezze che impartisce e le ferite che dona, accoglie e cinge l’incontro tra una voce d’angelo in volo ed una voce di angelo caduto, dalle vesti sporche di terra. Lì dove la voce di Rice trova e si intreccia con quella di Lisa Hannigan il canto pervade ardendo i sensi, cullando sensazioni e lasciando tra le ciglia piccole perle. Questo connubio, dissoltosi ufficialmente nel marzo dello scorso anno, ha impreziosito con una grazia tenera e sensuale anche la seconda creatura del giovane cantautore: 9. In un numero, nel 2006, sbocciano dieci nuovi abbracci… delicati, furiosi, comunque avviluppanti, seducenti. Le sonorità folk si fanno ruvide fino a tramutarsi in schiaffo oppure si dissolvono in un’acqua dolce che lambisce e dondola, che lava via i graffi sciogliendoli coi baci. Come in O, la musica possiede la consistenza delle immagini, la viscosità delle visioni; i brani si fanno sentire anche dall’immaginazione, attraverso questa si disegnano corpi e vestiti di sogni leggeri. L’intimità di un focolare, fila di luci tenui, mari dorati, boulevard percorsi dalle danze delle foglie, dai passi intrecciati al correre del vento, fantasmi di sorrisi amari, lacrime che evaporano sul candore della pelle, cuscini in cui annegare, infiniti spettri si adergono tra le note e le parole, ombre e figure che rendono il canto più percepibile, quasi tangibile nel suo offrirsi come visione. Questa capacità di farsi forma di luce ha portato la musica di Rice a scandire lo scorrere dei fotogrammi, dal piccolo al grande schermo le sue note hanno illuminato storie e gesti raccontandone i sensi invisibili o indicibili. The blower’s daughter, il primo singolo del primo album, depone le sue urla ingoiate tra gli sguardi di Nanni Moretti ne Il caimano, ma ancor prima, insieme al pianoforte di Cold water stillante gocce di respiro, ha accompagnato le vite di Dan, Anna, Larry ed Alice incastonate nella pellicola di Mike Nichols, Closer. La celluloide ha al contempo offerto suggestioni e nutrimento per i video che raccontano agli occhi le canzoni. Closer si è insinuato nelle immagini che rendono visibile la figlia del vento, mentre la poeticità dolente di 9 crimes, primo singolo estratto dal secondo album, viene incarnata in una forma che si ispira alla delicatezza di Le ballon rouge di Lamorisse, tenero dialogo tra un bimbo e un palloncino scarlatto tra i vicoli di Parigi.
Altre immagini vivide accompagnano le note durante i concerti, sono i gesti di Rice e le fiammelle delle candele, lucciole che trovano casa nei vetri satinati. Sul palco seduce il violoncello e turbano i brani con la loro bellezza insolente, graffiante eppure sempre dolcissima, come un bacio dato all’anima. Cheers darlin’ diventa teatro, Eskimo una poesia di bagliori, I remember si dona come pura vertigine, spesso resa ancor più intensa dalle corde violentate da Joel Shearer (cantante e chitarrista dei Pedestrian), e Accidental babies sfiora al buio le gote, le dita, il cuore… ogni parola, ogni carezza ai tasti e alla bocca della chitarra è un fiore che non effonde profumo ma la voce lacerante di Damien, che trasformando il dolore in incanto innamora.
Due segni, due album, numerosi concerti e il desiderio di una creazione libera, di una bellezza autentica tracciano le prime parole di una storia in fieri che, già evento ed avvento di incanto, promette meraviglie e malie… in attesa, si resta in ascolto con gli occhi dell’anima sgranati e i sensi aperti.
“My cave is deep now, yet your light is shining through / I cover my eyes, still all I see is you”.
The blower’s daughter – Video