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“Il limpido stupore dell’immensità”: intervista ad Andrea Chimenti

Accostandosi ad una musica resa poesia si avverte e si vive la meraviglia, se ne colgono i bagliori condensati in parole che disegnano visioni e sogni. Incanta l’arte di Andrea Chimenti, densa come i sensi, gli aneliti e le essenze, delicata e fulgida come l’anima che sa arrischiarsi, fare a meno delle definizioni non temendo la fecondità delle ombre e dei naufragi, splendida nel suo esser capace di non rifiutare il dolore e scegliere di sentire.
Musica che si scioglie in versi, in immagini, in ricerca tra domande, in suggestioni tra le radici. Il cuore grato si avvicina a questa preziosa bellezza e le porge delle domande che vogliono essere solo fogli bianchi, perchè vi possa camminare e viaggiare.

L’uno diventa due, che in realtà è quattro, che unisce diventando due, il cui scopo è rivelare l’Uno”, questo dice il Talmud facendomi pensare alla fecondità del condividere. La tua esperienza di musicista è costellata di progetti con-vissuti, la mente va a Canto Pagano coprodotto con Mick Ronson (la cui mano sapiente ha accompagnato e dialogato con le visioni sonore di David Bowie, Steven Morrissey e Lou Reed), alle collaborazioni con Gianni Maroccolo, dal tuo primo cd come solista, La Maschera del Corvo Nero, al suo A.C.A.U., penso a Vietato morire e all’eco di voci ed anime affini come quella di Patrizia Laquidara, di Steve Jansen ed Alessandro Fiori. Il con-vivere, per te, cosa apporta all’esperienza della bellezza?
Non so se ti capita mai di assistere da sola a qualcosa di bello, come un tramonto o di fermarti con l’auto perché il panorama ti lascia senza fiato e devi scendere per vederlo, respirarlo… il primo pensiero è… vorrei condividere con qualcuno questo momento. Ti vengono alla mente gli amici che vorresti fossero lì in quell’istante. Senza condivisione, l’appagamento non è mai totale e quando si riesce a condividere si diventa uno… mi piacciono le parole del Talmud che mi hai riportato, quanto sono vere! Accade che quando ho finito di scrivere una canzone, il mio pensiero va ai musicisti con cui poterla condividere. Ho avuto la fortuna di poter collaborare con personaggi notevoli nel panorama musicale, questo è stato per me fonte di ricchezza. Adoro quando il musicista con cui collaboro si innamora del brano che sta suonando e lo fa completamente suo, lasciando all’interno una traccia indelebile di sé. Mi piace quando le mie idee vengono manipolate, rilette, smontate. Collaborare significa far vivere una canzone, essere disposti ad abbandonare i propri punti di vista per accoglierne di nuovi e questo può portare solo nuova linfa e vitalità. Il difficile è capire con chi farlo… deve scattare una scintilla. Come per fare l’amore… ci si può far trasportare e trasportare, ma bisogna scegliere bene con chi.

Paul Celan ha in più forme scritto il rapporto viscerale che lega il poeta al linguaggio. “Solo nella propria lingua materna si può esprimere la propria verità”, così disse a Ruth Lackner lasciando risuonare l’intensità, anche estrema, del suo legame con la lingua tedesca, quella che lui diceva essere la sua lingua-madre, la lingua di sua madre e degli assassini di sua madre. Tu la parola la scrivi e la canti, qual è la relazione che hai con il linguaggio?
Riguardo il discorso della lingua madre concordo che solo nella propria lingua materna si può esprimere la propria verità. Io canto in italiano… non potrei fare altrimenti, anche se sono cresciuto ascoltando esclusivamente musica anglosassone. Quando si scrive una canzone ci si trova davanti ad un bivio: privilegiare la forma e l’estetica o il contenuto e il significato. Al momento che un autore sceglie il contenuto, non potrà che cantare nella propria lingua, sia per un discorso d’istinto, sia per il desiderio di essere capito da chi ti circonda. Non voglio dire che l’italiano che canta in inglese non badi a cosa canta… ma dico che ha scelto la chiave dell’estetica prima del contenuto. La parola è per me importante perché possiede un potere, ha una carica interna di forza… da diventare quasi incantesimo. Questa è un’epoca dove la parola è stata completamente scarnificata, ridotta ad un semplice suono usato con molta leggerezza. Un esempio che porto sempre è Acqua a cui un tempo erano legate immagini come “morte”, “vita”, “purezza” oggi se chiediamo cosa è l’acqua ci viene risposto due atomi di idrogeno ed uno di ossigeno. Il ché è sicuramente vero, ma quanta ricchezza buttata, perduta, in nome di una visione materiale dove l’uomo si crede di aver compreso tutto, di poter gestire tutto in un delirio di onnipotenza dove il “mistero” è solo ciò che ancora non è stato scoperto. “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio, il Verbo era Dio…”. Inizia così il prologo del Vangelo di Giovanni, parole di una potenza devastante, oggi ai più incomprensibili, così legate al Talmud che mi hai citato…

In più occasioni hai dialogato con la cultura ebraica, come in Vietato morire dove la tua voce dona vita ad un canto tradizionale, Mipney Ma, con la compagnia di Terra Danza poi hai portato in scena lo spettacolo Mazal Tov… nell’accostarti a questo patrimonio di saperi e gesti, di sensi, quale nutrimento ha trovato la tua anima e la tua arte?
Toccare con mano le proprie radici, ecco cosa è stato per me cantare Mipney Ma e altri brani ebraici. No, non sono ebreo, ma appartengo alla cristianità che senza ebraismo non esisterebbe. Sento fortemente l’appartenenza culturale dell’Europa alla cultura ebreo-cristiana. Questo mancato riconoscimento è un abdicare in favore del nulla… è una caduta, ma sono convinto delle parole di Mipney Ma che più o meno dicono: “Le più grandi cadute sono preludio alle più grandi ascese”.

Insieme all’attore Fernando Maraghini, nel 1997 hai fatto sì che vedesse la luce un’opera complessa ed affascinante come Qohelet in cui è iscritta la ricchezza della ricerca. La parola indica uno dei sette libri Sapienziali, dalle cui pagine emerge l’importanza della domanda più che della risposta. Ti sei accostato anche ad artisti, come Pessoa ed Ungaretti, che hanno posto l’accento sul domandare. Nel tuo percorso il ricercare che non conosce posa che ruolo ha avuto? Dove vorresti essere condotto dalla ricerca, cosa chiedi ad essa?
“Sono stato uno stagno di buio” è così che dice Ungaretti ne La Notte Bella. Penso che lo stagno di buio sia l’uomo che non cerca, colui che vegeta in una vita immobile. Credo di aver cercato a lungo anche attraverso la musica… è un mezzo efficace per conoscere. Per essere acqua corrente bisogna essere disposti a molto, come scorrere su terreni accidentati, a volte fangosi, a volte asciugarsi in attesa delle piogge, a volte non sapere dove stiamo andando e perdersi. Io sono un uomo dalle mille cadute e debolezze e credo che continuerò a cadere e rialzarmi fino all’ultimo. Questo alzarsi e cadere accade per il bisogno di Sentire quello che mi circonda e questo sentire mi fa porre tante domande… guai se non ci fossero le domande. Chi non se le pone è morto. La domanda è l’affermazione di esistere. Spesso la domanda è superiore alla risposta… nella domanda c’è purezza, a volte nella risposta c’è l’inganno. Io cerco una sola cosa: la sincerità del cuore. Quando vive in me questa sincerità tutto appare limpido e nella pace… ma è spesso così difficile!

Lasciandomi suggestionare dal termine ebraico Qohelet mi viene da pensare al suo poter essere letto come “l’animante, colei che anima il discorso”, a vestirsi di questo ruolo potrebbe essere proprio la musica… è la sensazione che si ha mettendosi in ascolto de Il porto sepolto, lì la musica sembra animare la parola. Accostarsi ai versi di Ungaretti, al segreto indecifrabile custodito dall’acqua del porto sognato di Alessandria, estrarne la musicalità… com’è accaduto?
Franco di Francescantonio, attore straordinario che ci ha lasciato un paio di anni fa, mi aveva commissionato una poesia da mettere in musica per un suo spettacolo. Istintivamente mi sono indirizzato verso Ungaretti e in particolare verso la poesia Vanità. Ti assicuro di aver iniziato a lavorare con il timore di sciuparla. Mi sono seduto al piano e ho messo la poesia a mo’ di spartito. E’ stato un viaggio… la sensazione era quella di non scrivere della musica, ma di scoprirla! Come estrarre da sotto terra un antico vaso e vederne apparire, piano piano, la forma e i suoi dettagli. Dopo avere finito il brano l’ho consegnato a Franco e diverso tempo dopo sono andato a vedere il suo spettacolo. Mi ricordo che mi fece uno strano effetto… non ero sicuro di quello che avevo fatto, forse era una cosa assurda, ma la voglia di riprovarci fu forte e così affrontai un’altra poesia e poi un’altra e così via fino a trovarmi in mano nove canzoni. Alla fine mi ero convinto che non era un lavoro da cestinare… aveva un significato. Siamo entrati in studio io e Massimo Fantoni, dopo otto giorni il cd era registrato e mixato. Mai fatto un disco con tanta velocità, incredibile… quasi tutto in presa diretta.

La tua creatività si è inoltrata in molteplici forme d’arte, lo testimoniano il racconto Fiume perduto, le esperienze teatrali ed un progetto come quello che ti ha portato a mettere in opera, tra musica e reading, il Cantico dei Cantici. Diversi modi di scrivere bellezza in rapporto tra loro, un dialogo che per te rappresenta una ricchezza?
Si, dialogare tra forme espressive diverse è importante se si ha l’occasione di poterlo fare. Le esperienze teatrali mi hanno aiutato a capire meglio l’uso della voce e a dare sempre più importanza alla parola, ma forse il mio trascorso di disegnatore di cartoni animati è quello che maggiormente mi ha influenzato nella musica… mi ha abituato a ragionare per immagini, in modo cinematografico. La canzone deve apparirmi come un’ideale colonna sonora di un momento della mia vita, come se questa fosse una scena di un film. La musica quando viene legata alle immagini ha il potere di renderle importanti o addirittura di stravolgerne il significato. Quando sono seduto in auto, amo mettere su un cd e guardare fuori dal finestrino… negozi, gente che cammina, i volti di chi, seduto in auto, è fermo ad un semaforo… se la musica che ascolto ha un significato, lo trasmette a tutto quello che sto vedendo e tutto appare come un film, si fonde, capisci? Si fonde con quel momento apparentemente così banale facendolo diventare unico, importante. Quando la musica non è niente di che… rimane scollegata da ciò che sto vedendo e questo incanto non si verifica.

Perdermi, perdersi, come naufraghi nell’oceano”… così in Vietato morire canti l’Oceano, anche tu avverti l’Allegria di naufragi? la bellezza insita nel ritrovarsi perduti e quindi di fronte ad un mare di possibilità aperte?
Ho bisogno di momenti in cui potermi perdere… ne ho assolutamente bisogno, in cui arrivare anche a non riconoscermi. Siamo sempre alla ricerca di una strada, qualcosa che ci faccia sentire al sicuro. Un po’ come Cappuccetto Rosso che non deve abbandonare mai il sentiero… altrimenti chissà cosa può incontrare. Credo che uscire dalle nostre sicurezze sia un’esperienza necessaria, rischiando, certo… è il famoso discorso di prima, lo stagno di buio. Ad ogni partenza si deve mettere in conto il naufragio ed è proprio nel naufragio inaspettato che spesso ho trovato la bellezza, l’ispirazione, a volte insieme al dolore… ma chi ha detto che il dolore sia solo un male?!

Ti sei dedicato alla sonorizzazione di musei, mostre e video d’arte. Ejzenštein parla di “natura non indifferente” riferendosi al paesaggio come una componente musicale, che finisce di raccontare emozionalmente quanto è inesprimibile con altri mezzi… la tua personale esperienza cosa ti ha portato a sentire del rapporto tra musica e spazio, tra suono ed ambiente?
Più spesso è capitato che scegliessero delle mie musiche che il non avere occasione di comporle appositamente. Una vera composizione musicale per mostre o installazioni mi è capitato più raramente, ma quando l’ho fatto mi ha entusiasmato. L’ambiente ti mette su un binario che devi rispettare per compiere un percorso. E’ come musicare una poesia, hai la parola già scritta come binario e devi necessariamente interagire con essa per trovare il percorso e creare un corpo unico. Ecco che l’ambiente diventa una sorta di pentagramma su cui adagiare le note, è lui che decide la curvatura del suono, ne scandisce il tempo, dilata o restringe le pause. In questo caso mi ritorna utile visualizzare la musica come forma. Parlo spesso in termini di immagine perché il mio approccio verso la musica è totalmente istintivo… non ho studiato musica e non conosco regole se non quelle che si scoprono con l’esperienza… regole dettate principalmente dal cuore.
Trovo che la musica, quando nasce per un ambiente, deve dialogare con questo. In ogni dialogo c’è botta e risposta. Per questo amo creare sospensioni nella composizione, affinché lo spazio possa rispondere dopo aver assorbito il suono e non è un semplice discorso di acustica, ma mentale.

In La filosofia della composizione Poe afferma l’autonomia dell’arte rispetto a qualsivoglia ingerenza morale o moralistica, così come rispetto ad istanze sociali o ideologiche, riconosce all’artista e all’opera una libertà che va però di pari passo con la responsabilità. Il tuo ultimo lavoro, Vietato morire, porta iscritto sul suo volto, sulla copertina, queste parole a forma di inno di vita in cinque diverse lingue… per te l’artista ha una responsabilità etica?
Non necessariamente per essere artista devi sentire questa responsabilità, però trovo che sia auspicabile.
L’artista ha un dono senza alcun merito… ce l’ha e basta. Questo dovrebbe far sì che si senta in dovere di utilizzarlo al meglio. Tu mi parli di libertà responsabile e credo che sia la cosa giusta.

Nel grembo dei teatri stai portando Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, per la memoria dell’attesa di Giovanni Drogo hai composto una musica capace di narrarne l’infinità.
C’è un luogo che fatalmente ti avvince, uno spazio che è la tua Fortezza Bastiani? E nel tuo rapportarti alla bellezza e alla sua creazione assapori mai quell’attesa che non si consuma né consuma, ma nutre?

Temo l’attesa, ne ho paura perché mi distoglie dal presente. Vorrei non attendere mai nulla ma essere. Questo è un sogno che raramente riesco a mettere in pratica. Mi sento molto vicino a Giovanni Drogo, il protagonista del Deserto dei Tartari, mi vedo spesso, come lui, sugli spalti della fortezza a scrutare lontano nella speranza che arrivi ciò che attendo da una vita. Drogo è una figura meravigliosamente debole, meravigliosamente vera. Mi riconosco in lui e la mia fortezza è la mia vita, a volte arroccata che guarda un sogno e si dimentica che il tempo sta consumando le mura, limando gli scalini… ma poi la realtà bussa sempre alla porta. Mi chiedi se c’è uno spazio dove cerco di rapportarmi alla bellezza… ci sono luoghi fisici che privilegio come il Casentino dove molto spesso mi reco per passare del tempo immerso nella natura, ma ce ne è un altro che considero una sorta di tana all’interno della mia casa: una piccola mansarda dove faccio la mia musica, dove ho scritto la maggior parte dei miei dischi e qualcuno, come il Qohelet, l’ho addirittura realizzato. Quello è il mio nascondiglio, la mia “ridotta” dove svolgo il mio turno di guardia, dove scruto il cielo dal lucernario… e mi avvolgo in un sogno di suoni.

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Un solo commento

  1. le parole di Andrea sono un oceano in cui naufragare è dolce, perchè ridesta l’attenzione a ciò che siamo, senza perdere di vista il sentiero che percorriamo ad uno specchio dove poterci riconoscere… grazie al cielo c’è ancora chi sappia raccontarsi senza timore di denudarsi… grazie dolce amico 😉

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