“Io sono afono. E in difficoltà. Ma resisto… Sì. Ma come chiedere ad un muto di urlare? Ma sì. Oltre. Vado Oltre.”
La premessa del cantante privato del suo strumento, come mutilato. Il compenso dell’uomo che vive Altrove. Oltre i deboli sensi umani. Oltre l’abbandono dei corpi. Oltre le ristrettezze di un piccolo locale del centro. Oltre il raccoglimento teatrale del pubblico attento e composto. Oltre le insidie delle distrazioni. Oltre.
È un Paolo Benvegnù nervoso e preoccupato quello che sale sul palco di Spazio Musica. Chiude gli occhi. Ricerca concentrazione e implora silenzio. Sembra pregare, rivolgendosi ad un dio intimo e discreto contenuto nel palmo della sua mano destra.
“Tutti i respiri che ho sono per te” e il miracolo si compie a voce piena. La pesante aria pavese si riempie del prodigio offerto da La schiena e continua senza interruzioni con Amore Santo e Blasfemo. L’inizio è faticoso, quasi trattenuto e giustificato attraverso una variazione sul tema (“perché fatica a respirare… come me”). Breve è il passo che conduce dall’incertezza alla rabbia, esacerbata dal grido di liberazione de La peste. Epidemico è l’effetto catartico del brano: il palco esplode e il ritorno del pubblico è tangibile. L’attenzione resta nello sguardo fisso verso un unico punto da cui trarne ispirazione. Sempre lo stesso. Immobile. E in questo contesto si succedono Il nemico e La distanza. Poi un sorriso a richiamare l’intesa, a dipingere a mezz’aria il profilo della silenziosa dedica di Interno Notte, fatta ancora una volta di mani e sguardi verso un soffitto di celestiali proiezioni. Il silenzio è un’illusione per riprendere fiato e ricominciare sulle note di Cerchi nell’acqua. La complicità dilaga, la tensione è spezzata e il pubblico si scompone. Ma è presto richiamato all’ordine. Shhhhh. Jeremy. Benvegnù scruta la platea: gli occhi sono torvi, indagatori, misurano l’interesse vivo in ciascuno. Non risparmia nessuna anima pura o impura che sia. Qualche leggero problema tecnico anticipa Sintesi di un modello matematico. Il corpo si condensa ancora di più nelle sue estremità. Le mani si tendono, i piedi battono con forza il tempo a sopperire e superare le difficoltà della voce. L’energia pervade l’ensamble nella distorsione di Cinque secondi. Andrea Franchi alla batteria è incontenibile e le bacchette prendono il volo sfuggendo al controllo. Il presente si interrompe e capriole temporali ci lasciano oscillare tra i successi del passato. Il mare verticale e subito dopo Suggestionabili in una rivisitazione più concreta. L’introduzione è insistente, quasi psichedelica. Ormai si percepisce l’affaticamento vocale, ben gestito da Benvegnù, tanto da rendere con estrema convinzione l’affermazione di sé contenuta nel testo: “Io sono il vertice. Io sono l’assoluto. Io sono il genio. Io sono il mio assassino”. La scaletta viene definitivamente abbandonata e prende il suo posto l’improvvisazione. Benvegnù si accomoda in mezzo al pubblico, caldamente invitato al silenzio. Ma un fastidioso vociare proveniente dalle retrovie lo distrae: senza pensarci, si porta sul fondo con la sua chitarra e inizia a intonare Cathrine. Non esiste più il concetto di limite e le imperfezioni si susseguono. L’anima dell’Artista emerge così prepotentemente e si staglia in faccia a chiunque stia ascoltando davvero. Senza alcuna pausa risale sul palco e si unisce agli altri per Il sentimento delle cose. Gli strumenti di tutti si animano a celebrare la loro funzione ludica: si cercano tra loro in un gioco che affascina le menti. Ancora silenzio e Benvegnù prende parola: “Si scrivono canzoni d’amore a quattro mani… ma poi si torna sempre a cantare le canzoni di una volta”. La voce si rompe ed è Simmetrie. Più vera, più intensa, più calda, in quelle note che non si possono più tenere. La fantasia perde confini e basta una parola comune come frigorifero a dar vita al divertisment più bambino: si inventano testi improbabili su melodie estreme che conducono ad un’eccentrica Troppo poco intelligente. La satira si alterna all’ironia più dissacrante e maliziosa fino a toccare il suo vertice con La cicala, brano estratto dallo spettacolo Marinai. Il pubblico è sempre più partecipe e divertito, mentre sul palco il delirio è imperante. E’ il momento di Quando passa lei richiesta da una voce in platea. Paolo lascia la sua chitarra e si concentra unicamente sulla voce. Alle sue spalle è la confusione: la musica è un gioco a ruoli invertiti ora. Luca cede il suo basso ad Andrea, ottenendo la chitarra di Igor, che a sua volta prende il posto di Andrea alla batteria. Alla stessa formazione e al caso è affidata la chiusa con l’esecuzione di E’ solo un sogno, portata al non-successo da Irene Grandi.
Il palco si svuota e il pubblico si sposta tutto all’esterno. È incredulo di fronte a quella voce che, assente, sembra risorgere davanti al microfono. In tutta la sua essenza, senza riserve.
“Sì… perchè quando un muto inizia a parlare, come puoi chiedergli di non urlare?”. (Lost Gallery)
ancora in attesa. del momento bramato. a lungo ricercato. a mani piene. perchè un grazie non sia una parola. molecole che incontrano altre. un suono per un battito di cuore. grazie.