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Il male è banale: intervista a Diego Mancino

Dopo tre anni di silenzio, torna Diego Mancino con il suo nuovo disco, L’Evidenza. Per l’occasione si presta ad una chiacchierata libera e sincera con i rappresentati di diversi webmagazine. Intorno ad un tavolo si beve un buon bicchiere di vino e ci si confronta sul passato e sul presente dell’artista, nonché sulle condizioni in cui nuota la musica italiana di oggi. Ognuno pone le sue domande a servizio di tutti, per un dialogo che si è voluto costruire tutti insieme. Ci unisce la curiosità e la passione per l’Arte che oggi si veste di Musica.

Cosa hai fatto in questi tre anni che separano Cose che cambiano tutto da L’Evidenza?
Ho scritto tanto. Ho scritto per altri, imparando molto. Poi mi sono preparato per scrivere questo nuovo disco. Clamoroso è stato ciò che è successo nella mia vita privata e che dà significato al disco stesso.

È volutamente meno introspettivo rispetto al precedente: è rivolto all’esterno. Parla d’amore. Sì. Ma attraverso una lente. Tutto è concepito per guardare attraverso l’incendio dell’innamoramento. L’evidenza è proprio quella dell’amore, l’unica forza che può salvare dalla pornografia. Pornografia ovviamente non in senso stretto, ma intesa come impossibilità di riconoscere la Bellezza delle cose, distinguendola dalla Bruttezza della realtà.

Colpisce la canzone Una torta in cielo soprattutto per l’immagine del sole nero.
Sole nero è un escamotage letterario. La poesia è anche tecnica ed è bene essere tecnici nel voler dire qualcosa.Utilizzo volutamente termini ossimorici per attirare l’attenzione sul messaggio che segue: sognare insieme. Non c’è niente di più bello nel vedere la mia fantasia legata a quella di un’altra persona. Qui però è limitata da qualcosa al di sopra della torta, per l’appunto il sole nero. Bisognerebbe tornare bambini e perdere il controllo almeno sulla fantasia.

Parliamo del tuo passato. È interessante pensare che hai iniziato con il punk.
Sì. A sedici anni ero punk. Volevo essere uno dei The Clash. Era la musica che ascoltavamo. Erano i nostri eroi adolescenziali. In realtà, poi, i miei primi dischi, a vent’anni, erano molto diversi, una sorta di prog psichedelico. Inoltre avevo iniziato come batterista, solo in un secondo tempo è subentrata la passione per il canto. Io ancora oggi mi sento punk, perché trovo che lo sia quello che faccio. Ho smesso però di essere nichilista come invece ero a sedici – diciassette anni.

Cosa ti ha allontanato dal punk?
Attenzione. Io non rinnego nulla di quel periodo. Sono cambiato nel momento in cui ho smesso di odiare la musica di mio padre. Anche lui è un musicista e io da piccolo l’ho sempre seguito. Faceva anche cinque-sei ore di set in cui suonava i classici della canzone italiana. In questi io avevo visto una sorta di cliché contro il quale dovevo stagliarmi. Poi nella mia esperienza ho fatto diversi incontri con musicisti e scrittori che riuscivano ad essere molto più sovversivi di me; non erano solo talento ma erano mossi dalla voglia di apportare un cambiamento. Adesso, poi, a dirla tutta, non mi piace nemmeno parlare di generi musicali. Per me non esistono. Esiste la bella musica e la musica di merda. Tutto sta nel distinguerle.

Torniamo al disco nuovo. Nell’epoca dei fatti urlati, della poca fiducia nelle parole e nella loro potenza, intitoli il tuo disco L’evidenza per affermare che sta crollando. Fino a che punto pensi che sia vero nella in realtà in cui viviamo?
Sì. Sta crollando la mia evidenza come sta crollando la tua. Io canto l’amor cortese, ed è veramente rock parlare di questo oggi. Io non credo che sia necessario urlare un determinato messaggio. Le parole più potenti sono quelle sussurrate. Sinceramente non mi interessa nemmeno dare un messaggio: poco mi interessa il significato che do io a quello che scrivo. È molto più curioso e significativo per me ciò che tu vedi nelle mie canzoni.

Hai collaborato con Fabri Fibra per un pezzo del suo nuovo disco. Come nasce l’incontro tra voi?
Fabri Fibra è un cantautore. Se mi sentisse, gli darebbe molto fastidio, ma questa è la verità.
L’incontro nasce dalla curiosità reciproca che ci ha spinto l’uno verso l’altro. Mi sento molto fortunato ad avere la stima del mondo hip hop. È un mondo che non consoce pacche sulle spalle e mi ha permesso di estendere di molto il mio sguardo. Il nuovo mi eccita perché mi mette alla prova, anche nell’uso delle parole. Io uso le parole. È il mio lavoro. Mi piace poter imparare, soprattutto dai giovani artisti hip hop. Nel mio genere, chi fa bella musica, ha la mia età. I giovani oggi sono viziati dalla televisione: ciò che non si vede non esiste. Da sempre ci sono stati movimenti contro gli stereotipi. Pensiamo ai Cantacronache di Calvino e compagni. Era il 1957 e già proponevano una canzone in antitesi a quella sanremese. Ripeto. Era il 1957. Ancora oggi però lo standard musicale è quello prodotto da San Remo. Tutti ci vogliamo andare perché è l’unico modo di morire oggi. In quella settimana accumuli una visibilità che non avresti nemmeno in un anno di tour. Ci vogliono ventenni più radicali, non in senso politico. Ci vogliono giovani che non si adeguino allo schema, ma che propongano qualcosa di concreto. Prendo gli Afterhours come dimostrazione che questo si può fare. Anche loro sono cambiati, ma è giusto che un cantante rispecchi il suo tempo.

Se Sanremo è una vetrina, è anche vero che chi si presenta su quel palco, per trarne la giusta visibilità, deve in qualche modo adeguarsi a quello standard. Prendo i Deasonika che tu ben conosci come esempio di gruppo cui Sanremo non ha portato grande giovamento, nonostante l’ottimo potenziale espresso.
Mah… io non sono mai stato a Sanremo e non conosco neanche bene le dinamiche della rassegna. I Deasonika sono una delle migliori proposte del panorama musicale italiano, ma Max (Zanotti, cantante) un po’ come me, scrive canzoni e canta ciò che sente suo. Ed è questo ciò che vuole fare, al di là del grande successo. Posso però farti l’esempio dei Subsonica o di altri, la cui storia post sanremese è completamente diversa.

Ma è anche vero che i Subsonica avevano già una loro visibilità prima di salire su quel palco.
È vero. Certo. Ma è un discorso più che altro di credibilità. Il problema in realtà è un altro: scrivere una canzone significa fatica. E non so in quanti hanno voglia di fare fatica. Allo stesso tempo si fa fatica a cercare la bella musica. E il cerchio si chiude. Per fare un buon lavoro è necessaria la fatica. Oggi invece tutto è regolato da un telecomando e ciò allontana dallo sforzo. Il cambiamento deve partire forse dagli artisti ma deve coinvolgere tutti. Anche voi che scrivete: imparate ad usare parole difficili! Costa fatica il vostro lavoro e faticoso dovrebbe essere l’approccio con i vostri scritti.

Cosa pensi della possibilità di scaricare la musica da internet? Può in qualche modo aiutare voi artisti?
No. Assolutamente non ci aiuta in nessuna maniera. Io penso che i giovani siano ciglioni! Scaricano le suonerie per il cellulare a prezzi incredibili e non spendono 0.99 € per avere una canzone nel suo reale formato. Questo atteggiamento è però frutto della cultura che permea l’Italia: è insito nell’italiano l’indole a volerti fottere! Così, oggi, fare dei dischi non è più da borghese ma da partigiani: un cantante, al giorno d’oggi, fa la fame, e sarà sempre così finché non si capirà che scaricare un brano equivale a rubarlo, senza considerare l’immenso lavoro e il numero di persone che si cela dietro ad esso. L’Italia è il Paese europeo che più scarica. Trovo piuttosto ridicola la critica al costo dei cd: un disco non costa più di due drink, ma non si è disposti a rinunciare ad un vizio per acquistare un disco. E qui ritorna il discorso della fatica e del sacrificio. Dovremmo avere più cura dei nostri artisti, perché l’Italia è prima di tutto Arte. L’Italia è terra di pittori, di musicisti e di poeti. Un paese privato dei suoi artisti è sintomo di guerra civile. In un’Italia che permette a Pasolini di morire in quel modo c’è già qualcosa che non va. Non lo giustifico, ma potrebbe avere un senso scaricare un disco di Madonna o di un qualsiasi altro grande artista straniero, ma non possiamo fare questo ai nostri artisti italiani. E poi i dischi vanno posseduti: in un cd si fissano fantasmi, si conserva la memoria di ciò che si vive. A un mp3 non puoi chiedere tanto.

Parliamo dell’artwork del disco.
Sì. È opera di Viola (Valentina Chiappino). Abbiamo lavorato insieme per tanto tempo e lei è riuscita a rappresentare perfettamente ciò che io esprimo in musica. Lei per un po’ è stata la mia musa. Ma è stato un interesse reciproco. Io vivo dell’incendio, è quello ad animarmi e lo stesso vale per lei. Ci sono tre materie che si confrontano: poesia, musica e pittura. Anche se io non mi sento maestro in nessuna di queste.

Cos’è successo con la Sony?
Ho scelto di andarmene io, anche a mie spese, nel momento in cui non c’erano più le condizioni per poter lavorare al secondo disco. Già avevo intuito delle prime difficoltà quando avevo avuto un’idea, a mio avviso fantastica, per il disco. Leggendo il Macbeth di Shakespeare, ero rimasto folgorato da un passo: “M’appari in forma di sospiro”. Si riferisce all’Ispirazione. Mi piaceva l’idea di poter fermare l’esatto istante che crea l’ispirazione. Avevo scritto 25 pezzi circa e alla Sony non ne piaceva nemmeno uno. Inevitabilmente ho iniziato a scricchiolare. Io voglio scrivere le mie canzoni: se loro non me lo permettono sono costretto a cambiare casa discografica. Non è così facile trattare con i discografici perché ci si muove secondo punti di vista e pressioni differenti. Quante volte capita che un cantante meno dotato rispetto ad un altro sia più sostenuto, discograficamente parlando, solo perché è una maggior fonte di guadagno? Questo fa sì che esistano due tipologie di cantanti: da una parte quelli che fanno la fame, di contro altri che hanno un tenore di vita altissimo finanziato dalle stesse case discografiche. Alla fine c’è anche da dire che Sony, Radio Fandango, sono solo nomi. Ciò che conta sono le canzoni.

Ascoltandoti, è inevitabile cercare delle somiglianze con altri artisti. Subito ho pensato a Paolo Benvegnù. Forse però più ottimista.
Paolo mi piace molto. Lo seguivo già negli Scisma e trovo che Le Labbra sia un gran disco. Io però mi sento Kurt Cobain: non mi piace sedermi nel tepore del mio sentire. In questo, sono molto diverso da Benvegnù: lo ascolto in un momento di quiete e mi crogiolo in quello che fa, ma io mi muovo in una direzione diversa. Questo forse spiega anche la frase nascosta sotto il disco: “Il male è banale”. È vero, lo è. Ma l’amore, al contrario, è molto difficile. E io scelgo di parlarne in questo modo. Se si vuole trovare una somiglianza con Paolo, si possono guardare le strutture dei nostri brani: lo scheletro è piuttosto simile.

Parliamo delle canzoni nuove. Nel primo pezzo parli di “sublimi sciocchezze”. A cosa ti riferisci?
Nel testo parlo della rivoluzione portata dall’amore. Quelle sublimi sciocchezze sono quelle piccole cose che ti fanno innamorare di una persona. A questo proposito trovo attualissima una citazione di Tenco: “Ho capito che ti amo quando ho visto che bastava un tuo ritardo per sentir svanire in me l’indifferenza per temere che tu non venissi più”.

L’amore è freddo è piuttosto lontana da te negli arrangiamenti. Vuoi parlarne?
È vero. L’arrangiamento è dei The Reverse e hanno fatto davvero un ottimo lavoro. L’amore è freddo è un piccolo noir. Ciò che è più strano è che se la si spoglia, eseguendola solo piano e voce, non si discosta dalla canzone alla maniera di Gino Paoli o Luigi Tenco. Come dicevo anche prima, ciò che fa la canzone non è solo il cantante, ma più che altro la sensazione che arriva al pubblico e viaggia nella distanza tra il microfono e il pubblico stesso. È stato questo a rendere i Nirvana il gruppo che erano.

Questo disco è stato scritto tra Milano e Catania. Cosa tieni e cosa butti di queste due città?
Di Milano butterei il sindaco e la giunta al completo; non merita assolutamente questa politica che non tiene mai conto dei suoi cittadini. Io sono fiero di essere milanese, accettando il fatto che è una città abusata. Io voglio bene a Milano, è la mia città. Mi riconosco nell’appartenenza alla falange tribale, anche nel mio riprodurre i suoni e i ritmi di Milano. Così come fanno anche gli Afterhours, altrettanto legati a Milano. È molto contraddittoria come città: dà un forte senso di solidità ma è al contempo inquietante. Qui si respira lo spleen baudelairiano. Catania è una bella città ma ugualmente abusata. Ancora una volta è un problema culturale. In Italia non si ama profondamente un luogo, ma si considera solo l’opportunità che da esso si può trarne.

Cosa ne pensi della scena alternativa milanese?
Mi piace molto. È una scena che sopravvive grazie ai suoi esponenti radicali. Milano è una città rock, il problema sono i milanesi, troppo bigotti e borghesi. Hanno dei gioielli e non se ne rendono conto, perché troppo impegnati a rincorrere modelli stranieri. Questo però riguarda il pubblico, perché Milano non smette mai di produrre cultura. L’incanto dell’arte è riuscire a sedurre e rimanere sedotti: da questo punto di vista Milano sta diventando molto erotica. Il punto è che Milano e i milanesi, però, non investono nella musica e se la musica live deve essere quella dei club, tutto si fa estremamente costoso. Se sei una band ancora ancora accetti quello che ti arriva e ingoi. Ma un cantante solista che deve pagare dei musicisti che suonino per lui, non può campare su questo sistema. Ci vorrebbe un movimento artistico in questo senso: era così bello quando si suonava nelle Università! Sarebbe anche utile per smuovere la passività dei giovani d’oggi inchiodati alle piccole realtà da pc. Sì, sono senza dubbio interessanti, ma bisogna incontrarsi e interagire. Sotto questo profilo, Milano ha poca ambizione. Ciò che ci vuole è un po’ di umiltà: l’arte permette di sviluppare il talento ma poi è anche molto facile riempirsi di se stessi. Il talento va difeso e coltivato. E questo deve essere compito comune degli artisti e dei fruitori di ogni forma d’arte.

Come saranno i live di questo disco?
È piuttosto difficile questo disco da arrangiare live. Avrà un andamento più erotico che farà del live una versione sexy di questo disco. Iniziamo lunedì sera a Milano. Saremo in cinque sul palco insieme anche ai Reverse. Insieme siamo dei pazzi, ma molto bravi. Sono molto fortunato ad avere questi musicisti con me, anche se la formazione cambierà di volta in volta. Questo però può essere positivo: ogni volta ci sarà un live differente e non sarà mai noioso, né da suonare né da ascoltare. Mi incuriosisce la reazione del pubblico, che a sua volta influenza l’esito del live. Se c’è una risposta anche il live cresce, altrimenti è difficile. Ho provato ad aprire un concerto dei Negramaro a Gallipoli ricevendo fischi per tutta l’esibizione: così non è per nulla facile, ma devi continuare, specie se credi in quello che stai facendo. C’è da dire anche che mentre suoniamo è come se fossimo in una bolla che ci regala una forte separazione mentale da tutto il resto; potremmo essere ovunque, al Madison Square Garden come nella nostra sala prove.

L’interesse per il teatro e gli studi in questo campo artistico ti sono serviti in ambito musicale?
Zero. Sono diplomato alla scuola teatrale Quelli di Grock ma è stato un extra; non era proprio il mio mondo. Forse mi ha aiutato ad essere più spudorato, ma nient’altro. Il mio atteggiamento sul palco è quieto, poco plateale. La musica per me è molto fisica, ma questo non significa impostazione. Anzi. Sento la batteria e io perdo il controllo. Ondeggio. Ondeggio molto seguendo i suoni. A volte mi aggrappo al microfono ma lo uso come appiglio per salvarmi dal baratro. Il movimento scenico del cantante è libero perché dato da fattori diversi, strettamente legati al proprio sentire e all’interazione con gli altri sul palco stesso.

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Un solo commento

  1. Bellissima intervista.
    Generosa, candida, diretta.
    Meravigliosa occasione d’incontro.

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