LostHighways prosegue la sua ricerca nell’arte a 360°, nell’arte che giustappone i diversi livelli sensoriali e interpretativi. I’m so happy on this boat dei Kovlo ci ha stregati con il suo concept basato sul tema della follia, esplorato attraverso cinque brani/personaggi storici che ruotano intorno a tale tema.
Imbarcarsi sulla nave dei folli è stata un’esperienza unica e aperta a mille suggestioni, da De Sade a Goethe (n.d.r citati nel meraviglioso booklet). Il post-rock dei Kovlo è ricerca dei suoni che trasmettono vibrazioni, che affondano le radici nei padri del genere come Mogwai e GodSpeed You! Black Emperor. Un’intervista intensa dove si parla di arte concettuale evocativa (alla David Lynch) e di come nasce un brano post-rock. Un’altra interessante pagina di LostHighways.
I’m so happy on this boat è un concept album filosofico-post-rock sul tema della follia intesa nel senso rinascimentale: il vagabondare senza meta dei folli sulle loro imbarcazioni… com’è nato questo originalissimo tema del disco?
Innanzitutto occorre precisare che è prima nata la musica e solo in seguito è sorta l’idea del concept. Di conseguenza la musica non è mai stata composta e arrangiata in vista di un’idea filosofica, ma è dalla musica, in sé del tutto a-significante, e proprio per questo ricca di potenziale di senso, che è stato estratto un possibile percorso significante, quello della follia.
La prima idea/traccia che rimandava al concetto di follia è nata durante la registrazione in studio di Pierre Rivière. Discutendo con il nostro produttore artistico Rob Ellis su ciò che il brano potesse esprimere ed evocare, ci è innanzitutto parso un sound che riecheggiava alcune atmosfere alla David Lynch, nelle sue componenti più oniriche, surreali e perverse. In seguito ci è apparsa l’immagine della navigazione dei folli, nel loro fluttuare senza senso né meta, che poteva esprimere un corrispettivo di senso ed un raddoppio di significato rispetto alla fluttuazione dei campi sonori che stavamo registrando. Da qui anche l’idea di inserire un unico e breve inserto vocale, I’m so happy on this boat, recitato da Rob Ellis nel brano, che in seguito è diventato il titolo dell’album.
Così, una volta deciso il concept, è iniziata una ricerca di 5 possibili personaggi da accostare ai vari brani. Ci è parso che ciascuna figura potesse esprimere uno specifico movimento della musica come navigazione attorno al tema della follia, un possibile viaggio su una nave dei folli, dalla perversione sessuale al suicidio romantico, dalle maschere del buffone al raptus omicida fino all’ultima strega torturata e bruciata viva in Europa.
Oggi che la navigazione dei folli è scomparsa dalle cartografie delle nostre città, l’errare senza meta di questi personaggi pare essersi inabissato nei territori senza fondo della nostra (in)coscienza. Forse la fluttuazione dei campi sonori può diventare mezzo e fine per esplorare questi (non)luoghi, sempre che la musica possa giungere dove la parola non riesce ad arrivare.
Cinque movimenti post-rock, cinque bellissime illustrazioni dei personaggi folli, cinque brani di prosa che spaziano da De Sade a Goethe… possiamo dire che questo disco è basato sull’inseguimento dell’arte in tutte le sue forme ricercando il totale coinvolgimento sinestetico dell’ascoltatore? E’un disco che vuole essere di nuovo oggetto immanente e non solo puro flusso di bit…
Più che il coinvolgimento completo dell’ascoltatore in vista della creazione di un’impossibile opera d’arte totale, ideale che crediamo oramai obsoleto nell’epoca della frammentazione post-moderna (di cui il post-rock può essere un’ulteriore espressione culturale), si può pensare all’ascolto dell’opera come ad un’esperienza immanente, che basta a se stessa, e che non necessita di ulteriore significazione, ma a cui si possono accostare ulteriori segni di significazione (parole ed immagini) che non desiderano completare l’ascolto ma aprire ulteriori piani d’esperienza ed interpretazione durante lo stesso.
Le parole, le idee, i significati espressi non possono/vogliono dunque spiegare alcunché. Si possono invece accostare al divenire a-significante del suono come doppio e come eccesso, non per chiudere il discorso ma per rinviare altrove ed evocare oltre, trascinati in un navigare senza meta della forma senza contenuto di una vibrazione.
Preferisco tutti i brani ma in particolare Zuan Polo… com’è nato strutturalmente questo brano e più in generale come nasce un brano post-rock? C’è dietro un approccio iniziale di stampo jazzistico?
Non sappiamo come nasca un brano post-rock in generale. Probabilmente ogni band avrà le sue modalità di composizione. I nostri brani nascono invece da un approccio iniziale di pura improvvisazione. Ore passate al locale a suonare improvvisando, senza sapere dove si andrà a parare, ma cercando possibili innesti ed integrazioni tra i diversi strumenti e le differenti tracce sonore emerse durante l’improvvisazione. In seguito, dopo un approccio fondato sulla libertà dei vari strumenti di trovare un loro percorso individuale nell’armonia del tutto, inizia il lavoro di sintesi ed arrangiamento, che necessita di un approccio fondato sull’ordine e la disciplina che metta in una possibile forma compiuta la libera creatività iniziale.
Venite da diverse esperienze musicali precedenti (dal metal alla fusion), quanto è stato importante questo aspetto nella realizzazione di un sound veramente originale e diverso nell’ambito del post-rock?
Sicuramente la nostra idea, fin dall’inizio, è stata quella di non rinchiuderci in un sound prestabilito, e quindi di aprici a tutte le possibili influenze musicali a noi più vicine. Troppo spesso molte band diventano semplicemente dei cloni di altre che hanno fatto scuola (e quindi tanto vale ascoltare gli originali!).
Se siamo riusciti veramente a creare un sound originale e diverso nell’ambito del post-rock non tocca a noi dirlo, anche se sicuramente non ci dispiacerebbe essere riusciti e riuscire ancora meglio in futuro a traghettare una certa musica post-rock, diventata oramai stereotipata ripetizione, verso nuovi ambienti sonori, ambienti che forse non si definiranno più post-rock, ma semplicemente musica strumentale in attesa di nuove possibili categorizzazioni.
La collaborazione con Rob Ellis che contributo ha fornito al disco?
L’incontro con Rob è stato sicuramente entusiasmante. Oltre ad essere un grande musicista è anche un personaggio incredibile che ci ha insegnato molto sul significato del fare musica.
Rob ha riarrangiato i brani, vi ha aggiunto diverse sue idee ed ha dato supervisionato tutto il lavoro nel suo complesso, ma senza stravolgere le nostre idee iniziali, riuscendo semplicemente a valorizzare il materiale che avevamo a disposizione.
L’album che vi ha cambiato la vita?
Difficile trovare un album in comune tra i Kovlo. Bisogna però ammettere che la band attorno alla quale ci siamo uniti anni fa sono sicuramente i Mogwai. Poi ognuno ha immesso nei Kovlo le sue influenze spesso anche diverse e non sempre condivise.
Come vi trovate con la On the camper records?
La nostra etichetta è una piccola label indie svizzera che pian piano si sta facendo conoscere e si sta professionalizzando sempre di più. All’inizio era costituita più come una famiglia di amici e band con la voglia di mettersi insieme e di trovare un proprio spazio nella scena musicale, ed i responsi finora sono più che positivi. Vedremo cosa succederà in futuro.
Il ruolo della rete per la promozione di un disco originale come il vostro?
La rete è sicuramente uno strumento importante di promozione per band indipendenti e di nicchia come la nostra. Ci permette di trovare ascoltatori e nuovi fans ovunque anche se, d’altra parte, la quantità di band e di materiale che si trova oggigiorno in rete è talmente ampio che non è sempre facile per il navigatore fare una scelta di prodotti di qualità.
Zuan Polo – Preview