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Action, please! – København Store

Action, please! Un imperativo muto a cui con condiscendenza si risponde, cominciando a trattenere gli occhi su una pelle di sogni colati, di rodonite e citrino, di chine e pastelli soffiati dalla punta delle dita, di coralli dal colore delle gote… una pelle da far scivolare via per scoprire un nero denso come l’ossidiana, “in questo profondo silenzio e umidità, sotto le sette cappe di cielo azzurro ignoro la musica coagulata in ghiaccio improvviso, la gola che si precipita sugli occhi, l’intima onda che si annega sulle labbra” (Vicente Aleixandre). C’è un momento che galleggia tra l’assenza di suono e la musica, l’attimo silente che precede l’inizio di un ascolto che è insieme visione onirica di eclissi e aurore e fiorire di cristalli. Pochi battiti e Postcore deflagra, è un’alba che appartiene ancora alla notte, lacerata da soli di zaffiro e riverberi di vetri caleidoscopici, è una luce sospesa all’orizzonte che pulsando cresce, inonda, trabocca. In questo bagliore che cinge ed avvince l’oscurità “è venuto l’istante, il preciso momento della nudità a testa bassa, quando i velli vanno a pungere le labbra oscene che sanno. È l’istante, il momento di dire la parola che esplode, il momento in cui i vestiti si cambieranno in uccelli, le finestre in gridi, le luci in aiuto” (Vicente Aleixandre). Tra trame di puro suono erompe la voce, quella di Jonathan Clancy (Settlefish, A Classic Education), si sparge come brina che disseta ed arde finché parole di calcedonio sbocciano in un’altra gola, fluisce e dilaga allora una voce che è un tappeto di neve, un fiume di velluto, una perla di lacrima esplosa tra le labbra. We Came Down from the North è un vento che spira dalla bocca di Alessandro Raina (Giardini di Miró, Noorda, Amor fou) effondendo poesia. “Cento forze, cento scie, cento battiti, un mondo tra le mani o la fronte; un sentiero o giraffe di bianco, un oriente di perle sul labbro, tutto un sentire a ritmo azzurro cielo” (Vicente Aleixandre). La parola annega in un vortice di ametista, i sogni la sfilacciano fino a disfarla, a tramutarla in musica, nel suono di un senso che vola al di là dei sintagmi, dietro le palpebre, nel fondo della carne. Diventa marea racchiusa in una cifra, 23.03, questo suono, acqua sedotta ed attratta dalla luna in cui i pensieri annegano per imparare un respiro nuovo, per ri-conoscere la carezza del liquido amniotico in cui farsi spirale di sangue e umori d’anima. Riemergono come biglie o boccioli le parole, vetro soffiato e plasmato dalla lingua di Simone Magnaschi (Stinking Polecats), afferrato dalle dita per vederlo brillare in controluce, per giocare a scorgervi costellazioni. Black Rebel Tricycle Club fa piovere una voce di raso su quarzi ed opali. Il canto si condensa in gocce che risvegliano un giardino popolato da suoni che prendono le forme di fiori, libellule, rocce d’acquamarina, fili d’erba, giunchi, colibrì e farfalle candide. Gardens.V3 è apertura di un mondo fatato che s’impiglia tra le ciglia, che resta sotto pelle. “Sotto un singhiozzo un giardino non bagnato… Il paesaggio è sorriso. Due cinture che si amano. Gli alberi in ombra segregano voce” (Vicente Aleixandre). Le cortecce profumate stillano gemme d’ambra, una bocca le prende per tramutarle in parole, bellezza liquida da cantare. Fabio Campetti (Edwood) in A Real Twilight fa sgorgare dalla gola un filato d’organza che lambisce ed avvolge portando i sensi a perdersi in un altrove. “Un uccello di carta e una piuma rossa, e una furia di seta, e una colomba bianca. Tutto un mazzo di mirti o di ombre colorate, un marmo con battiti e un amore che s’avanza… Una musica o nardo o tele di ragno, un vaso di stanchezze o di ciprie o di madreperla… Tutto dolce e dolente, tutto di carne bianca” (Vicente Aleixandre). Le labbra si chiudono e solo una musica dipinge e così fa essere un luogo sognato, ornato di agate e giade, un tempo dagli istanti dissolti, dagli attimi eternati. The Cold Season conduce ad un vertice color cobalto da cui partecipare all’albeggiare degli astri e alle corse delle comete, un vertice in cui fermarsi ad immaginare, in cui restare a sentire.
I København Store sono quattro ragazzi, “four imaginary clerks” vestiti di vento e profumi del nord, che lasciano i nomi nei cassetti e in quegli stessi cassetti vanno riposte le sillabe che si assemblano per costruire definizioni, le lettere che scandiscono i generi, vani ed impotenti di fronte al mondo sonoro e sognante che le loro dita hanno innalzato. “Post-rock”, “Elettronica”, “Shoegaze”… sono etichette che non nominano la malia che fiorisce dopo l’azione invocata. Action, please! Ed ha inizio una proiezione che non cerca termini delimitanti. Sono suggestioni, immagini, voci, visioni oniriche, fascinazioni ed incanti a venir proiettati su di un velo traslucido di fili argentei secreti da un’anima-animale, da un’anima creatrice, tra rovi e petali. Una rete di vetro e rugiada rac-coglie ed imprigiona riflessi, sogni, respiri… di uomini uniti in un’identità fluida, aperta all’Altro. Quest’apertura è illuminata da quattro voci, quelle di altrettanti musicisti chiamati ad ornare i suoni di parole da loro stessi tessute. C’è desiderio di condivisione e confronto, da cui nasce una musica che è come un’ellisse che per esserci ha bisogno di due fuochi. È il cercarsi, l’inseguirsi e il relazionarsi di due e più fuochi quello che viene anelato, non desiderano essere sufficienti a se stessi i København Store, per questo hanno scelto di cercare costantemente altrove la propria voce. La fecondità del dialogo ha nutrito il loro pregiato lavoro. Jonathan Clancy, Alessandro Raina, Simone Magnaschi e Fabio Campetti, insieme al contributo di Fabrizio Lusitani (Flora) e dell’ottimo Giacomo Fiorenza, impreziosiscono questa musica eterea e magnetica non solo con il loro talento, ma soprattutto con la loro diversità, con la loro specifica unicità. È l’incontro, e l’apertura che lo rende possibile, uno dei tratti luminosi di questa bellezza pura che specchia la sua grazia nelle deiscenze colorate dei pastelli e dei pennini di Niki Kelce. L’illustratrice, l’artista che ha creato la pelle di questo disco, possiede tra i suoi universi di chine e guache, nati tra le pagine di una moleskine o le pieghe dell’immaginazione, un riverbero della stessa poesia che si riflette e moltiplica in bagliori tra le note dei København Store. Quella poesia che reclama il dialogo, consegna allo stupore, insegna la meraviglia e innamora. Quando infine la musica torna ad essere inghiottita dallo scrigno nero, resta nel silenzio un’eco.
“Ascoltami. Ancora, di più. Qui nel fondo divenuto una conchiglia piccolissima, mutata in un sorriso arrotolato, ancora sono capace di pronunciare il nome, di dare sangue” (Vicente Aleixandre).

Credits

Label: 42 Records – 2008

Line-up: København Store con la partecipazione di: Giacomo Fiorenza (treated guitars) – Jonathan Clancy (voce) – Alessandro Raina (voce) – Fabrizio Lusitani (lo-fi keyboard, guitar samples) – Simone Magnaschi (voce) – Fabio Campetti (voce); Musiche dei København Store (Postcore contiene un estratto da Edimburgo è una finestra dei Flora);Testi di Jonathan Clancy, Alessandro Raina, Simone Magnaschi, Fabio Campetti; Artwork: Niki Kelce

Tracklist:

  1. Postcore
  2. Ants Marching On
  3. We Came Down from the North
  4. 23.03
  5. Black Rebel Tricycle Club
  6. Gardens.V3
  7. A Real Twilight
  8. The Cold Season

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