Una tavola ben imbandita attende i sensi nell’intimità di una sala che accosta pochi corpi, il candore della porcellana e lo scintillio dell’argento sono lì solo per condurre la carne in prossimità delle lame… la musica, quella degli Afterhours, è il pane, il coltello, il calice che trabocca, è il fuoco e il pugnale che arriva al fondo, che lo tocca e disturba, che lo apre e ferisce, facendo della destabilizzazione un’estasi. Avere le membra e il sangue co-stretti da una seduta morbida significa offrirli alla ferocia della poesia che conosce la crudeltà e rende perciò percepibile la verità… significa sentire, precipitare nell’istante in cui le difese vengono meno e nessuna distrazione può salvare, precipitare in un perturbamento per esserne complici.
Un concerto in forma di dialogo e dono inizia a ghermire con poche parole, con una favola presenta, cantandolo, l’inquietante che dimora in ciò che è innocuo e innocente. “C’era una casa bellissima/Che un brutto mutuo stregò/Ma il sortilegio questa notte/Svanirà“. Si dissolvono prima in otto e poi in nove canzoni le stregonerie delle illusioni rabbonenti, gli squallidi incantesimi delle rassicurazioni da poco. Alcune “ricette di quotidiana macabra felicità” e mani piene dei sedimenti e dei sensi di una storia lunga vent’anni mettono in guardia, ricordano che Il poeta è un fingitore… se ti sembra lieve il suo tocco forse ti sta pugnalando, se quel che senti sul collo ti pare un bacio freddo probabilmente ti sta addentando il cuore o sta dando fuoco alle viscere e se la pelle ti arde come frustata da uno schiaffo allora è una carezza quella che ti vola addosso sfiorandoti. Può essere fatale dimenticarselo. L’arte gioca con la forma e la sostanza, le rende un sinolo affinché tanto il (pro)fondo quanto la figura e la sua veste possano presentarsi e farsi ac-cogliere come rischio, così che la percezione diventi un cimento, un volo ardito. Se si vuole stare al gioco dell’arte, se ci si vuole lasciar giocare, ci si deve immergere spogliandosi di ogni pre-giudizio, perché lì dove la bellezza si forma o nega tutto è in questione, ogni cosa può essere occasione di perdita o conquista, non ci sono significati sclerotizzati che illuminino, men che meno c’è l’appiglio delle definizioni tranquillizzanti o solo limitanti… ci si deve sporcare le mani tastando, scavando ed accarezzando, si deve accettare il pericolo e la leggerezza, la fatica e la ricerca. Ogni sfumatura deve trovare di volta in volta un nome nella creazione, i colori e i significati sorgono ad ogni attimo… di fronte al canto che genera e nomina, che plasma un sapiente equilibrio tra ciò che viene svelato e ciò che resta taciuto, sono necessari l’istinto e l’attenzione fatta di tensione, è necessario essere protesi ed accoglienti, curiosi perché desiderosi di com-prendere. Gli Afterhours consegnano a questa condizione stra-ordinaria anima e corpo, lo fanno attraverso le provocazioni di È solo febbre o le corde urlanti de La sottile linea bianca, grazie alle seduzioni o sfide di Riprendere Berlino, ad una Male di miele che avviluppa e sovrasta. Lo fanno nel tempo di una stretta nello stesso modo in cui l’hanno compiuto nel corso di quattro lustri, cercando in se stessi e in ciò che li circonda nutrimento per il desiderio di sperimentare, di crescere, di evolversi che caratterizza la loro identità in movimento, il loro essere che è divenire. Nel tepore di una sera che resta sospesa tra i blu della notte e le vene rosse disegnate in cielo da un astro, scorrono scintillii che evocano deflagrazioni… scorrono canti, sgorgano dal passato così come dal presente e nell’intrecciarsi disvelano il medesimo refe che li attraversa, quella trama sottile come un respiro o un fremito che è l’essenza, il nucleo pulsante da cui sbocciano e su cui si fondano tutte le forme e le sostanze, tutti i suoni e le parole che sanno di ricerca ed onestà. Punto G o Musa di nessuno, I milanesi ammazzano il sabato o Neppure carne da cannone per Dio, La vedova bianca o Bye Bye Bombay… hanno sapori tra loro diversi, ma c’è un retrogusto comune, quello che lascia sulla lingua e nell’anima il segno e il senso di un turbamento, di una vertigine, di un graffio sulla carne viva. Ammantati e penetrati dalla musica si ri-conosce quel gusto o ferita e ci si ritrova, soccombenti estasiati, a trattenere un sussulto. Per questa musica, per una notte, per una volta non c’è l’attrito dei corpi che si dimenano, non ci sono grida…nessuna forma di distrazione che diventa negligenza, niente a decentrare o sollevare, il peso delle parole scagliate, dei suoni irruenti, di una voce travolgente ed impetuosa va non sopportato ma portato. Per questa musica, per una notte, per una volta c’è quiete e silenzio…vi rimbombano i colpi inferti sulla batteria, le malie dei fiati, le corde violate ed amate, riempiono ogni interstizio, rendono l’aria densa, s’insinuano, lacerano. Quel grido o poesia, quella percossa o colore che gli Afterhours donano da un palco si fa nell’atmosfera muta bellezza intensa, dilaniante, splendida. Con addosso e dentro solo la musica si avverte quasi fino al dolore la vertigine, si accarezzano i dettagli, si scoprono sensi che hanno costantemente qualcosa da dire e dare. Una sera di maggio si tramuta in occasione grazie al suono che si fa dono, che ricorda di essere un dono… perché tale è ogni canto, ogni verso, ogni concrezione di bellezza, è una luce preziosa che va semplicemente accolta, ricevuta nell’intimo affinché sia ciò che è. In qualsiasi modo si accenda quella luce, qualsiasi forma prenda c’è solo una (re)azione possibile: stupirsi, farsi meravigliare. Una sera di maggio è un’occasione per assaporare otto e poi altre otto canzoni e poi un’altra ancora…si addentrano, esplodono, dilagano, soggiogano, folgorano. In ascolto di Ballata per la mia piccola iena o di Male di miele, si comprende come il tempo non logori ma arricchisca ciò che custodisce senso. Osservando For what it’s worth indossata con consapevolezza e piacere, si intuisce come attraverso la bellezza si possa allertare il pensiero, dargli stimoli e linfa. Lasciano costantemente qualcosa da conquistare Tarantella all’inazione così come Orchi e streghe sono soli (ninna nanna reciproca), insieme ad ogni sapore del nuovo album. Serviti su un cerchio disegnato da un uncinetto, su un carminio magnetico, i brani proposti giocando con un titolo di Scerbanenco raccontano di ascolto in ascolto storie di un quotidiano Umano, troppo umano. Manuel Agnelli ha imparato gli insegnamenti più preziosi, quelli di una bimba, quelli attraverso i quali scoprire ed indagare giorno dopo giorno il reale per poi raccontarlo in una fiaba, in una forma che mantenga in sé un abisso da scandagliare…fatto di feroci miserie ed ombre, di profondità magnifiche.
Prima che il silenzio sfoci nel buio, Quello che non c’è si dispiega come il tocco che resta ancorato alla pelle, il cui calore denso meraviglia e strega… “non una bottiglia che resta vuota dopo che la si è bevuta, ma una bottiglia magica che si riempie mentre disseta” (Jean Dubuffet). Ingoiato l’ultimo respiro, l’ultimo suono, si sente in petto la musica che sfida ed accarezza l’anima per condurla presso la gioia del turbamento…e si resta in ascolto. (Lost Gallery)
Si ringrazia Roberta Accettulli (Casasonica Management) per il cortese invito.
Questo concerto l’ho vissuto, attraverso la radio che espandeva le note nella stanza, coccolando la mia piccola iena… Grazie Vale per come fai arrivare le emozioni.
So che mi darete addosso…e che sarò controcorente…ma gli after questa volta sono stati un pò per me una delusione…
mi do tempo di risentire altre volte il loro “lavoro”….sperando che mi sbagli…
ci sono rimasta un pò male…
ma comunque complimenti per l’articolo!