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Piccoli passi che portano lontanissimo: intervista a Matteo Bianchini (Moleskin)

Domenica pomeriggio di quasi estate. Torno dal mare ascoltando in macchina Penelope. Penso alle domande per l’intervista ai Moleskin che farò pochi minuti dopo per Losthighways. Ma non mi viene in mente nessuna domanda. Eppure mi chiedo tante, troppe cose. Soprattutto mi chiedo come si può esprimere così bene una sensazione senza guardare, senza parlare, solo pregando note e sussurrando parole. Ho deciso di istituire, simpaticamente, “l’intervista dinamica”. Usando, in mancanza della presenza, il modo più spontaneo e veloce. Ho pensato a Msn. E Matteo non ha esitato. E’ mettersi in gioco. Digitare parole dopo parole, prima di parole. E questo è il risultato. Prezioso. Delicato.

Allora, la prima domanda che mi viene è anche abbastanza facile… il vostro album è un viaggio, senza certezze e per questo difficile e delicato, cauto, eppure incosciente. Il titolo, Penelope, nasce da questa considerazione?

Non del tutto: è vera l’incoscienza, nel senso che il titolo è venuto in maniera quasi involontaria, mi è come apparso in testa e lì per lì ci è piaciuto molto il “suono”, il fatto che fosse una sola parola, e molto bella, molto femminile. Solo dopo ci siamo accorti piano piano di quanti significati in effetti lo legassero al lavoro che avevamo fatto.

Perchè quello che si prova, ascoltando i vostri brani, è proprio questo senso di attesa. Di piccoli passi che portano lontanissimo. Questa delicatezza, questo affacciarsi appena, anche nel modo che ha Marco di cantare, sembra quasi paura…
E’ vero, il senso dell’attesa non poteva non pervadere un disco che ha avuto una gestazione così lunga. Però è anche vero che forse non è quello il senso profondo, il punto non è tanto l’attendere, quanto ciò che si fa e si prova e si pensa durante l’attesa; l’attesa è in questo caso una condizione, in parte forzata, ma che è anche propria di come siamo fatti noi, Marco compreso: il suo modo di cantare in questo disco, secondo me, è conseguenza del fatto che se attendi guardando l’irraggiungibile, non puoi non maturare un tale senso di rispetto verso di esso che è quasi in grado di sopraffarti. Non è certo paura, per come la vedo io è una presa di coscienza che non ti permette di urlare.
E rileggendo la domanda mi vengono in mente una quantità di cose che mi intrecciano le dita.
“I piccoli passi che portano lontanissimo” è un’espressione che quasi mi commuove: in effetti descrive molti aspetti, intimi e non, che ci hanno segnato molto negli ultimi anni. E’ una cosa legata anche alla vita quotidiana, al posto in cui stiamo e al progetto che stiamo costruendo: è fatto di passi piccoli, di cui misuriamo ogni volta il senso che hanno per noi e solo per noi, cercando di guardare più in là che possiamo. Passi e visione sono forse due parole chiave.

Infatti si percepisce il rispetto, la devozione, la riconoscenza, ma soprattutto la dignità.
Mah, sai, quando fai musica nel posto dove viviamo noi, o lo fai per divertire gli amici, o per costruirti un piccolo regno, oppure ti confronti con quello che pensi ci sia di più profondo su questa terra. Se fai l’errore di scegliere la terza strada, non puoi che stare buono e umile, cercare di essere onesto con te. La dignità si costruisce a forza di vedere la propria piccolezza, in fondo.

Cosa pensi quindi di chi sgomita per raggiungere un “sogno”? Pensi, pensate, che i sogni siano traguardi da tagliare o una sorta di orizzonti da sfiorare, da non raggiungere, da riverire?
L’unico tipo di sogni che per me esiste ed ha un senso è quello che ti mette in movimento per raggiungerlo. L’idea di “visione” è una cosa che mi ha accompagnato per molto tempo mentre lavoravamo al disco, e mi permetto di dire che per me è la chiave della “poetica” di Marco (diciamo che soprattutto mi permetto di usare la parola “poetica” conoscendo la sua modestia). Quelle che chiamo “visioni” sono ciò che nutre, imprescindibilmente, le nostre vite. Sono quel cumulo di emozioni, di ombre e di bagliori che si muovono continuamente dentro e che ci rendono qualcosa di più di un mucchietto di cellule. Non si può che provare a guardarle e goderle, e farle illuminare dal sole. Questo è il massimo che potrei chiedere al fatto di fare musica, l’accrescere la mia attenzione verso di esse, l’accoglierle. Nel senso femminile dell’accoglienza, un’accoglienza che genera. La cosa a cui tengo di più è che si colga quanto queste visioni siano tutto meno che “irreali” o lontane dal vivere “normale”: non siamo artisti bohemiens, nullafacenti che stanno lì a seguire i ghirigori della propria testa. Anzi, sarebbe bello se la musica che facciamo riaprisse nelle persone più comuni (come noi) il dialogo verso quel tipo di mondo che si portano dentro, e che spesso viene sotterrato dalle otto o dieci ore di lavoro, dalle bollette e dal traffico.

Credi che tutti possiedano la visione? O che sia prerogativa solo di alcuni? Perchè nel vostro album è netta quest’idea e questa necessità di creazione, ma dà in un certo senso la possibilità a tutti di trasformare il quotidiano in essenza, in bellezza, come le vostre parole e le nostre note insegnano, dimostrano. Mi hai praticamente già risposto…
Sarebbe bello restituire le visioni ai legittimi proprietari, cioè a chiunque, e non lasciarle agli artistoidi.
Incredibile, stavo scrivendo quello di cui parlavi tu. Il quotidiano E’ essenza, E’ bellezza. Quello che ci manca è solo l’attenzione a questa bellezza.

E’ vero… per rassegnazione, a volte… per diffidenza verso se stessi.
Spesso ho sentito dire a molti artisti che quello che cercavano era “emozionare”… per me il massimo sarebbe moltiplicare l’attenzione (mi torna in mente un brano del primo disco, in cui Marco canta: “regolo la mia attenzione su di me”…incredibile come tutto torni.)

In un certo senso svegliare, aizzare, smuovere, creare speranza che non sia passiva. Acuire. E’ tutto quello che fate già.
Acuire. Che parola bellissima.

Lo fate.
Diciamo che si prova, poi la strada è parecchio più lunga di come dici tu.

La strada potrebbe non essere la stessa per tutti. Nel mio caso è stata brevissima, immediata, una caduta dall’alto.
Assolutamente. Tant’è vero che non penso che questa cosa sia prerogativa del nostro modo di fare musica, o del modo in cui la facciamo in questo disco. Anzi.
Per esempio, credo che in questo disco abbiamo esplorato quello che è un primo elemento richiesto dall’attenzione, cioè il “rallentare”, non come quiescenza ma comunque come quel fermarsi che serve a favorire un atteggiamento di ascolto verso di sè. Probabilmente il prossimo non sarà così: io personalmente sono da tempo attratto dall’idea del movimento, dal provare a vedere se si riesce ad acquistare velocità senza perdere grazia.

Hanno parlato del vostro album come uno dei migliori dischi degli ultimi anni. Per qualità e per verità. Non poter comunicare con facilità con tutti, non avere alle spalle il gigante che muove i tasselli, vi fa credere meno in quest’affermazione? Avete necessità del riscontro oggettivo o per voi è già tanto guidare, sollevare una singola mente?
Il riscontro è semplicemente una gioia che dà fiato, dopo tanta fatica; ed è comunque, come tutte le gioie vere, personale, è un incontro: vedere persone, che semplicemente prima erano sconosciute, che ci manifestano l’emozione di sentirsi “mosse” da quello che abbiamo messo in questo disco è qualcosa che sento come il compimento di quell’attenzione di cui parlavo prima. Semplicemente, capisci che quella cosa non avrebbe senso se poi non condivisa. Mi viene in mente una frase “riconoscersi / per creare”, ti ricorda qualcosa? E comunque, nessuno qui ha la minima intenzione di “guidare” o sollevare le menti. Quello è ciò che fa Ulisse, casomai.

Ma le conseguenze non sempre sono legate alle intenzioni.
Assolutamente, e per fortuna. Cadrebbe l’ipotesi di onestà, e con essa la possibilità di stupirsi, se si pensasse al fare musica come il raggiungimento di un’intenzione.

I vostri sono testi brevi e visionari, come dicevamo prima. Una frase fra tutte mi ronza spesso nella mente: “Coprimi di foglie ruvide / cospargimi il mento di petali”. Quest’ambiguità, questo essere blasfemi e purissimi, è alla base della vostra musica, secondo me. Quanto è difficile preservare, difendere la propria bolla di cristallo contro la velocità del successo immeritato e della notorietà?
Non voglio pensare al mondo come a un sistema crudele con regole che premiano tutti gli altri stupidi e non noi illuminati. Penso che si possa e si debba difendere quel mondo di visioni, semplicemente lavorando duro, con tenacia e lucidità. Noi per questo abbiamo iniziato a lavorare almeno otto anni fa, costruendo uno studio, lavorando per riempirlo, cercando di vivere le nostre vite, anche in questa dimensione, nella maniera più degna e saggia che potevamo. Imparando a buttare via zavorre come la fretta, la presunzione, l’ansia di riconoscimento, costruendoci intorno un progetto fatto di elementi solidi, veri, fatti di fatica e lavoro. In questo modo, e coltivando quello che senti di prezioso, vai avanti, cercando di non prenderti troppo sul serio, e alla fine ti accorgi che quello che succede attorno conta fino a un certo punto. E questo vale anche e soprattutto a livello personale. Chi ha lavorato a questo disco (Michele Pazzaglia compreso, anzi compresissimo) è legato da una tela di affetto e di rispetto che è la cosa più solida che esista al mondo, ed è l’unica capace di difendere la delicatezza di quello che contiene. Se non ci fosse questa tela, non ci potremmo neanche permettere minimamente di cantare e suonare “coprimi di foglie ruvide / cospargimi il mento di petali”.

La tecnologia… ci porta a fare interviste dinamiche su msn, conoscenze virtuali senza sguardi e senza respiro, solo immaginazione, ci porta a modificare e a modificarci. Quanto la tecnologia aiuta l’arte, la musica? Questa è una domanda stupida, forse. Ma manca la naturalezza, eppure è un lusso, adesso, scambiarci parole così rapide.
Questo è un tema molto meno banale di quanto dici tu. Anzi, negare la centralità di un argomento come il rapporto con la tecnologia, oggi, sarebbe davvero la cosa più idiota del mondo. Un po’ come se i Radiohead l’avessero intitolato “No computer”, quel capolavoro. A parte gli scherzi, potrà sembrare stupida la mia risposta, ma credo davvero che dipenda da quello che ci si mette dentro. Ci sono giornalisti che dal vivo, pure usando penna e calamaio, avrebbero potuto farmi domande insulse e vuote. Noi non ci siamo mai visti, eppure sei stata capace di suscitarmi pensieri, di mettere la mia attenzione (tanto ormai ho ceduto alla monomania) su cose preziose. Il problema è che, anche qui, si pensa “è la solita posizione, niente di originale” e si va oltre, quando invece bisognerebbe, ogni volta che si parla con qualcuno, fermarsi e chiedersi se quello che ci siamo detti, al bar o su MySpace o al cellulare, è qualcosa di VERO o no. E poi, le macchine che abbiamo dentro il nostro studio sono come figli per noi, quindi figurati se siamo contro la tecnologia!

Vuoi concludere dicendo qualcosa? Ti lascio mettere la parola fine perché io non ne sono capace.
Nemmeno io sono capace, accidenti.

Allora non concludiamo.

In luce – Preview

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2 commenti

  1. E’ essenza, E’ bellezza. Quello che ci manca è solo l’attenzione a questa bellezza

  2. Bella conversazione, non banale e impostata.
    Matteo è veramente una persona dall’intelligenza e la cultura molto brillante.

    In Luce poi è veramente bella.

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