Lì dove la delicatezza è accesa e tinta di colore vivido dall’ardore di un amore puro, mettersi in ascolto significa ricevere una carezza e un’occasione di meraviglia. Veronica Marchi sa offrire, con le parole come con la musica, una forma d’incanto che invita a dischiudersi, ad accogliere, a sentire, che nutre i sogni del mondo e dei bimbi, degli occhi aperti… lo fa con la levità di chi possiede un candore incorruttibile, dispiegando luce, toccando i sensi con raggi di linguaggio e melodie lucenti come astri, lucciole o comete. Inoltrandosi nel mondo della giovane cantautrice si scopre un animo sognante e gentile che ha cura della parola e sa così farne un ricamo, un dono, un bagliore, un cibo. L’acqua del mare non si può bere è il secondo segno lasciato sulle pelli, non ci sono schermi o difese possibili tra coloro che scelgono di sentire e la musica custodita dalla verità dell’acqua salata, tra i suoni e chi li ha generati… c’è solo un fluire, come di sangue o d’amore, come di onde o palpiti. (Foto by Maddalena Fasoli)
Il tuo legame con la scrittura, quella fatta di lettere o note, è iniziato a partire dall’infanzia… è cresciuto sta crescendo insieme a te. Come ti relazioni oggi con la parola, con il segno che disvela?
Scrivere è come respirare, per me. Scrivere mi fa sentire potente. E’ come dominare una vallata dalla cima di una montagna, ma non ha niente a che fare con la presunzione. Il mio modo di scrivere è cresciuto insieme a me, si è evoluto insieme al mio corpo, si è plasmato alla mia vita, al mio modo di essere. Scrivere è un fatto strettamente e maniacalmente legato alla mia esistenza, quella di tutti i giorni. Con le differenze sostanziali che comporta “diventare grandi”. Quando andavo a scuola, ricordo che scrivevo di ogni cosa che facevo, e specialmente scrivevo quando ero triste. Oggi scrivo nel piacere, nella sofferenza, o più semplicemente descrivo, tramutando il più possibile in parole ciò che vedo, che è poi la missione fondamentale di un cantautore.
Per dare corpo al tuo sentire e raccontare di lembi d’anima e visioni del mondo ti sei avvalsa di ottimi musicisti, la tua musica possiede anche la ricchezza delle collaborazioni che sono una forma di condivisione. Per te, che scrivi i testi e la musica dei tuoi brani, il rapporto con chi arriva ad impreziosire il tuo universo di suoni e sensi come si dispiega?
Negli anni non è stato mai facile trovare le persone giuste, che sapessero tradurre nel modo giusto quello che avevo in testa, musicalmente. Il giorno che ho smesso di lottare (e di arrabbiarmi perché non trovavo un chitarrista) è arrivato Andrea Faccioli, con me da quattro anni. E prima di lui intrecciai un forte sodalizio con Maddalena Fasoli, violinista di grande talento con cui divido il palco da più di sette anni. Sono molto esigente, un tempo ero anche abbastanza intrattabile. Sono pignola ma lascio carta bianca ai miei musicisti, perché mi fido di loro, so che amano la mia musica. Credo sia sufficiente per sentirmi tranquilla… in buone mani.
Quando la tua sensibilità s’incarna in una canzone, si svolge una sorta di dialogo, che si trasforma poi in unione, tra la parola che l’inchiostro o le labbra fanno apparire e il linguaggio che s’inscrive nel pentagramma… com’è da te vissuto?
Di base sono molto pigra, nello scrivere canzoni. Aspetto sempre un segno divino, quella spinta inspiegabile che mi porta a scoperchiare la mia mente. Sono più le volte che, in periodi più o meno lunghi, mi “obbligo” a scrivere, a sedermi alla scrivania e a far lavorare la mia mente. Altre volte vengo colta dal classico insight, e l’illuminazione diventa un bisogno impellente, quasi fisico. Ecco sì, ho un rapporto molto fisico con la scrittura. Finito di concepire un brano mi sento liberata, come se avessi fatto l’amore, o avessi detto in faccia ad una persona tutto quello che pensavo, o a me stessa. La cosa sublime è che l’evento si rinnova ogni volta che poi ricanto i brani. La magia si ripete all’infinito, ricordandomi ogni giorno quanto io sia una persona fortunata.
L’acqua del mare non si può bere… una verità a nominare una musica che tocca con una disarmante semplicità, la costituisce l’assenza di filtri – una nudità candida – e un insieme complesso di sfumature che sa però giungere ai sensi come luce. La produzione artistica di questi colori fusi in un solo raggio di musica e purezza è stata curata proprio da te… cosa significa avere l’onore e l’onere di seguire anche sotto questo aspetto lo sbocciare di un disco?
E’ stata una grande responsabilità, per me. Sono partita dalla scelta basilare di un suono, e quindi ho chiamato i musicisti che sapevo mi avrebbero dato determinate sonorità e soluzioni. Ho scelto tante cose da sola ma c’è da dire anche che senza l’apporto dei musicisti, del tecnico del suono Gianluca Mancini, e dell’ormai navigato produttore (a cui ho affidato il missaggio) Loris Ceroni, avrei uno scheletro dei brani ma non avrei il prodotto finito così come lo sentite. Per poi aggiungere un ottimo mastering affidato a Claudio Giussani del Nautilus di Milano. Insomma, sono tante le considerazioni da fare intorno ad una produzione, certo è che molto spesso sento la mancanza di una figura “paterna” come quella di un produttore artistico. E’ meraviglioso fare le cose da soli, e farcela davvero. Ma altrettanto meraviglioso è fondere le proprie idee con l’esperienza di chi ne sa di più e che può darti il giusto equilibrio tra le forze magnetiche della produzione di un album, sotto tutti gli aspetti.
Il pianoforte… ti ci sei accostata quando eri ancora una bambina. Ma suoni anche accarezzando le corde delle chitarre. Che parte hanno questi strumenti, con la loro matericità e la loro lingua, nell’atto creativo nel suo complesso e nella composizione?
Sono fondamentali. Mi è quasi impossibile concepire un brano senza avere un pianoforte o una chitarra con me. Il più delle volte le mie canzoni nascono senza una divisione tra testo e musica, le parole e la melodia arrivano insieme, perciò lo strumento è basilare.
In Splendida coerenza canti una “sana fragilità” non temuta e non rifuggita… nella voce si scorge la delicatezza che è altro dalla debolezza, la delicatezza così propria del femmineo, della sua forza e della sua essenza creatrice. Nella tua esperienza artistica la fragilità trova effettivamente un suo spazio e un suo ruolo nella generazione della bellezza, nella nascita di una musica?
Splendida coerenza è un brano che è arrivato proprio dalla presa di coscienza di voler mettere un punto, una fine ad un tipo di scrittura vago e poco mordente, ma anche una presa di coscienza prima nella mia vita privata. E’ una canzone allo specchio, nata dallo sfogo naturale verso una “me” incatenata a certi standard mentali di cui mi sono accorta di essere stanca. Accogliere la fragilità a braccia aperte mi ha permesso di scrivere tutto l’album, accettandomi e costruendo la mia musica intorno ai miei limiti, valorizzando il più possibile la purezza delle mie capacità, senza cercare di essere qualcosa che non sono.
Il Fiore di neve che canti invita, infine, a credere ancora nella semplicità. Pensi ti appartenga o la raggiungi attraverso la ricerca e la fatica?
Sono in costante ricerca della semplicità, perché l’era in cui vivo è così piena di insidie da riuscire a confondere anche l’animo più puro, come spesso accade per esempio per i bambini.
Una voce di bimba annuncia Il Re del mondo… vi si intravede un atto d’amore rivolto all’infanzia, all’innocenza che ognuno può custodire e a quel filo lucente che lega l’arte e il gioco. Il tuo sguardo si posa non di rado sul cominciamento, su quella che dovrebbe essere l’età delle corse dietro le farfalle, è una forma di cura rivolta all’infanzia da difendere ed insieme al bimbo che resta in noi?
E’ strano ma a volte mi ritrovo a scrivere istintivamente di cose che si collegano automaticamente tra loro. Non mi ero accorta di aver seguito un filo che parte dal brano che apre il mio disco (Bambina) fino a questo di cui parli. In effetti sono molto legata alla figura innocente dei bambini, forse è l’unica vera risorsa che ci permette di vivere i nostri giorni, il nostro tempo in maniera leggera, come un monito costante, da non dimenticare mai.
La rete è un mezzo, una forma di libertà che reclama responsabilità e capacità di rispetto, un’occasione per con-vivere il bello e l’idea. Pensi che le odierne tecnologie possano essere un valido strumento per far sì che la musica si diffonda e trovi una più attenta e curiosa capacità d’ascolto?
Assolutamente sì, non sono una persona che rifiuta la tecnologia… non sono bravissima a gestirla ma la ritengo un passaggio naturale. Perché dovrebbe fermarsi? La differenza sta sempre nell’uso che se ne fa, come tutte le cose. Quando nacque l’automobile sicuramente in molti dissero. “Oddio no, a cosa serve? Abbiamo già tutto!”. Penso che la risposta non sia nell’esser per forza contro qualcosa di nuovo, ma nel saperlo accogliere nel modo giusto, con la giusta consapevolezza. Il che, penso io, con un po’ di coscienza in più non sia così difficile.
Il tuo percorso ha già dietro di sé dei passi importanti, due album, diversi concerti e riconoscimenti, come vorresti che si snodasse? Quali sono gli aneliti che ora ti nutrono?
Nutro sogni semplici, molto terreni. Vorrei che giorno dopo giorno la musica potesse davvero darmi da vivere, e già lo fa. Non posso fare altro, lei mi ha scelto e io mi dono a lei senza freni, amo quello che faccio e sento di avere una missione, un po’ come una che riceve la chiamata divina, no? Mi diverte parlare così, perché sorrido un po’ di me, della mia visione così sognatrice della vita… sono un’inguaribile romantica, ancora credo nel piccolo principe. Ma non sono la sola, per fortuna.