James Joyce ed un certo, particolare colore del mare. Milano ed un certo, particolare rumore di sottofondo. La musica classica, la musica folk, il rock’n’roll, gli anni del liceo, la forma del suono, della luce, delle parole, di alcune in particolare. Fabrizio Coppola non strizza l’occhio al vizio dell’orpello, non si barrica fra le parentesi delle sfumature; si racconta con la gentilezza propria del desiderio, con l’onestà schietta di una particolare consapevolezza. E’ piacevole scoprire qualche suo dettaglio nella penombra di una discrezione che non può e non vuole mascherare l’intenzione di esserci, di prendere parte al gioco, di scardinare l’ingranaggio con l’intuito di una passione candida, solida, necessaria. (Foto by Emanuele Gessi)
Fabrizio e le sue radici, musicali e letterarie. Dove affondano? Di cosa si nutrono? Dove sono state scattate le fotografie di cui i tuoi pezzi sono l’anima, il segno?
Sono sempre stato attratto dalle storie che hanno al centro l’uomo, nel cinema, come nella letteratura. Il realismo, il neorealismo, il documentario e la short story americana, come anche i grandi romanzi dell’Ottocento, penso a Zola, a Balzac che veniva accusato dai suoi contemporanei di inserire nei suoi romanzi le descrizioni dei suoi personaggi mentre mangiavano, penso a I mangiatori di patate di Van Gogh, e ancora Verga, Pavese. Amo molto anche Moravia, The Dubliners di James Joyce e altre cose ancora che elencare qui sarebbe un po’ lungo e noioso. Per quanto riguarda la musica, il discorso è simile: una marea di folk e folk rock in età adolescenziale. Quando i miei compagni del liceo ascoltavano i Guns and Roses e i Metallica io ero su Woody Guthrie, Leadbelly e Tom Petty, per dirne una. Poi da lì tutto il rock degli anni sessanta. Oggi ascolto molta musica strumentale, classica e contemporanea, e questo deriva probabilmente dal fatto che mio padre ha suonato alla Scala per più di trent’anni e fin da piccolo mi portava alle prove, qualcosa deve essermi rimasto dentro in un modo o nell’altro.
Tutti i tuoi testi si colorano di una complice semplicità, di un’armoniosa chiarezza. Riesci a rendere incantevole anche il più cupo disincanto quasi dovesse ferire senza fare troppo rumore, che il rumore è già troppo altrove, tutt’intorno…
Sono sempre stato convinto del fatto che per comunicare con forza una cosa non è necessario urlare. Il rumore oggi è molto alto, se pensi alla politica, ai giornali o alla televisione è facile capire come alzare i toni sia un modo per nascondere la pochezza del contenuto. Io ho un atteggiamento diverso e i miei ascoltatori sono persone intelligenti e sensibili, capiscono la forma che ho scelto. Sul fatto della semplicità posso dirti che è sempre stata una mia necessità, fin da quando ho iniziato a scrivere: mi piace ridurre il discorso all’osso, ai colori primari, riuscire a dire ciò che voglio dire usando il minor numero di note e di parole possibile. È un atteggiamento che deriva dai miei ascolti americani, indubbiamente. Non mi piace il solipsismo dell’autore oscuro né il manierismo del musicista tecnico. Non ho mai amato la supposta poesia dei paroloni complessi.
Fabrizio e la sua chitarra, i suoi pentagrammi, la sobrietà di una certa inclinazione rock, di un certo marchio folk. Esibizione acustica e live elettrico: cosa rendono l’una e l’altro unici? Quale diverso segno vogliono/possono lasciare in chi ascolta?
Sono due cose molto diverse, anche se in realtà il nocciolo della questione è sempre lo stesso: le canzoni sono quelle, suonandole da solo o con un gruppo in versione elettrica cambiano i contorni della foto, le sfumature, i colori, ma l’oggetto del ritratto è sempre lo stesso. Nel tour acustico mi sono divertito molto, ho imparato molte cose sulle mie canzoni, su quali sono i punti di forza e i punti deboli. Ora però ho voglia di tornare all’elettrico, cosa che sto già facendo.
E’ disponibile in free download un Live Ep registrato nel maggio 2006 alla Casa 139 (MI). Sette pezzi di cui cinque brani tratti da entrambi i tuoi dischi e due cover. Vuole essere in qualche modo rappresentativo di un percorso? Come hai scelto i pezzi che sarebbero entrati a far parte di questo progetto?
A rifletterci adesso, quell’Ep segna la fine di un percorso. Registrato a Milano, durante l’ultima data del tour di Una vita nuova, è stata una delle ultime cose che ho fatto con il mio vecchio gruppo di lavoro, sia a livello di musicisti che di etichetta/management. Il live rispecchia il suono che avevo con quel gruppo, un suono maturato durante una collaborazione durata tre anni e che rifletteva anche il mio modo di scrivere sui due dischi. Ora ho nuovi collaboratori, sto giusto facendo una serie di date con il mio nuovo gruppo, del vecchio l’unico superstite è il batterista Fabio Deotto, i nuovi sono Paolo Perego al basso e Francesco Campanozzi alla chitarra.
Hai partecipato alla rassegna D-Day Musica per gentili ascoltatori e La città che muore (Una vita nuova) è entrato a far parte della compilation che ha coronato il buon esito delle serate nel downstair del Dynamo. Credi anche tu nei piccoli miracoli che la passione per la buona musica riesce e può fare? Se può dirsi miracolo il riuscire ad ottenere un po’ di rispetto per l’artista e per il suo lavoro…
Sì, certamente ci credo, anche se non li definirei miracoli, nel senso che una cosa in sé – una rassegna, un locale, un disco – non può mai essere risolutiva. Inserita però in un contesto di situazioni può contribuire a creare un circolo virtuoso. D’altro canto però devo anche dirti che ho smesso da tempo di cercare di capire come risolvere la situazione della musica dal vivo in Italia. Io faccio la mia cosa, che gli altri facciano la loro. Il rispetto per l’artista deriva dal rispetto per l’altro in senso generale, che mi sembra attualmente un problema più grande del rispetto per l’artista. Bisogna partire da qui, per arrivare di là.
Fabrizio oggi, in questo momento. A cosa ti stai dedicando? Cosa hai in serbo per noi, per chi, come me, ha visto crescere La superficie delle cose (Novunque/self 2003) dentro ai panni di Una vita nuova (Novunque/self 2005) e ne ha amato i dettagli? Svelami Respirare, lavorare…
Oggi sono in un periodo di raccolta, nel senso che negli ultimi tre anni ho scritto davvero molto. Potrei dire di avere due dischi pronti: uno era già pronto nell’estate di due anni fa, con tanto di tracklist, titolo, idee per il packaging, poi – come mi capita spesso – ho avuto un ripensamento, sono partito con il tour solo acustico e la cosa è morta lì. Finito il tour ho ricominciato a scrivere altre canzoni, che andranno a comporre il disco che ora registrerò sul serio. È probabile che lavorerò di nuovo con Simone Chivilò, con il quale ho lavorato per Una vita nuova. Inizierò a breve la preproduzione, non ho idea dei tempi a dir la verità in questo momento.
Una curiosità: come hai vissuto la partecipazione alla realizzazione della colonna sonora di Pedra Mendalza, particolarissimo ed appassionato film di Claudio Rocchi?
Ho conosciuto Claudio Rocchi più di dieci anni fa e anche se non c’è mai stata una frequentazione assidua lui ha sempre seguito il mio lavoro. Così un giorno mi ha chiamato chiedendomi di poter inserire La superficie delle cose nella scena finale del suo film. Per me è un grande onore e mi piacerebbe in futuro avere altre occasioni di lavorare per il cinema, che amo molto.
Mi è capitato di frugare fra le pagine del tuo blog. Mi ha incuriosito molto la tua rubrica, “Canzoni che mi uccidono”. Vorresti regalare una pagina della tua rubrica a LostHighways? Una canzone che ti uccide scelta per noi…
Stanco e perduto, Vinicio Capossela. “Corri a casa / tutto è cambiato / tua sorella aspetta un figlio e tuo padre / ha bisogno di te”. La prima volta che ho letto The Dubliners di James Joyce avevo 17 anni. Una di quelle storie mi è rimasta dentro, come una buona amica con la quale hai voglia di parlare quando ti senti un po’ giù. La storia è Evelyne: la protagonista è una ragazza, ancora giovane, che a causa della morte della madre si trova a dover badare sia al padre, sia ai fratelli. Poi conosce un ragazzo che le sussurra il sogno di una vita, una vita vera. Per raggiungerla sarebbe sufficiente imbarcarsi con lui, prendere il traghetto e andare via, lontano. Lontano. Il giorno è stabilito, l’appuntamento è fissato. Si incontrato al porto, sulla banchina affollata di persone in attesa di imbarcarsi. La corrente della folla li trascina fino al punto d’imbarco. Poi, in un attimo lungo tutta una vita, lei lascia scivolare la sua mano da quella di lui. Lui viene portato via dalla folla, si gira a chiamarla, lei lo fissa con uno sguardo bianco. In questo pezzo che ho scoperto su Live in Volvo, l’unico suo disco che ho, Capossela ci narra una storia simile: puoi cercare di mollare tutto, di fuggire lontano dalla tua casa e dalla tua famiglia, lottare per bucare l’anonimato di una vita che sai già dove ti condurrà, salvo poi renderti conto che il legame che tentavi di spezzare è troppo forte da rompere e che forse è l’unica cosa reale che possiedi. Il tema strumentale che chiude il pezzo posso suonarlo al piano per tutta la sera, una volta dopo l’altra, ipnotizzato, finché i vicini cominciano a bussare alle pareti. Ma loro non conoscono la canzone.
Il tema strumentale che chiude il pezzo posso suonarlo al piano per tutta la sera, una volta dopo l’altra, ipnotizzato, finché i vicini cominciano a bussare alle pareti. Ma loro non conoscono la canzone.
Immagine splendida e di grande impatto.
Il problema è che LORO non conosco la canzone.
Come IO non ne conosco tante altre.
NOI TUTTI non ne conosciamo tante.
NOI TUTTI non conosciamo tante emozioni che altri vivono quotidianamente.
A questo serve LostHighways e la musica dei tanti artisti che prestano note e parole su queste pagine al silicio.
Solo fermandoci qui possiamo combattere la gente che ci osserva in fretta che non può capire niente di te, di me, di te e di me.