Dentro le sfumature e i profumi del crepuscolo la musica di Cesare Basile ad accogliere, ad essere l’inizio e il varco, la soglia dischiusa… è carne contro carne la sua poesia e tocca oltre la pelle come un graffio, come una grazia. L’attesa non è attesa, sul palco con le parole e le ombre Basile la tramuta in esperienza di bellezza ed è da qui che il sogno comincia ed uncina. Mentre il chiarore del cielo lascia le sue ultime carezze, chiazze di luce negli occhi, l’aria trabocca sempre più di fremiti, si fa via via più densa, è satura di desiderio che sta per essere soddisfatto, la attraversa la consapevolezza cieca che sta per accadere, che sta già accadendo, una malia. Una bolla di silenzio lascia sospesi quasi in assenza di gravità. Lo sguardo è volto al cuore dell’anfiteatro, che ha ormai preso corpo d’abbraccio, quando la musica av-viene… altrove. “Tutto è efficacia e razionalità/niente può stupire/e non è certo il tempo/quello che ti invecchia e ti fa morire/ma tu rifiuti di ascoltare ogni segnale/che ti può cambiare/perchè ti fa paura/quello che succederà/se poi ti senti uguale“.
Fanno il loro ingresso in galleria gli Afterhours e cominciano, in acustico, porgendo ai corpi protesi che li circondano una lama vestita di raso, Non è per sempre lambisce e taglia, Male di miele e Voglio una pelle splendida si posano poi come sale sulla carne viva. C’è generosità in quest’inizio che annuncia, insieme al luogo, la natura stra-ordinaria di un concerto che saprà mettere tra le labbra di ogni presente il gusto della meraviglia. Pochi attimi, scivolati sui volti e tra le dita impazienti, ed inizia a giungere dal palco il suono e il senso di una musica che conosce la forza e l’audacia del cambiamento. Naufragio sull’isola del tesoro, Milano circonvallazione esterna, Orchi e streghe sono soli… gli Afterhours somministrano stupore alle pupille e alla mani e alle lingue, creando una dimensione acustica in cui i brani arrivano affilati più che mai a toccare ed aprire. Sa di cura ogni singolo canto, ogni minimo dettaglio. I gesti, come fossero bocche di ragno, tessono una tela argentea in cui cadere, una garza di respiri lucenti in cui restare impigliati, un filo di saliva che non veste ma piuttosto disvela le canzoni in una nuova pelle. Lungo questo refe, È la fine la più importante assume nella lentezza una forma seducente, Sulle labbra trova tra le corde del violino, tra le sue strette laceranti, deflagrazioni e lampi ad illuminarla… e il fiato intanto l’ha rapito la disarmante nudità di Musa di nessuno. “Per ogni taglio che hai/sulle tue mani oscene c’è un perché“. Le parole nel buio si fanno ferite o tremiti ed afferrano, tra il cuore e lo stomaco. Si resta, dall’inizio alla fine, cinti da questo laccio di linguaggio, di suono e incanto, ed è in questa presa che La vedova bianca coglie e strega il sentire…da alti sgabelli laccati di nero, dalle bocche delle chitarre acustiche, ghermisce con battiti che si insinuano nel sangue, con un bacio sporco che si fa traccia durevole. A stringere ancor di più il laccio ci pensa una sorprendente versione di You know you’re right, ultima canzone registrata in studio dai Nirvana, che trova un respiro caldo e ruvido in cui concretarsi, ammaliando con un abito di carne e penetrando nella carne. Infine l’abbraccio si salda in un altro nodo, sta in una “ninna nanna reciproca“… le corde di tre chitarre diventano per pochi minuti una culla e i fiati, attraverso l’ottone, una carezza. Anche nel silenzio resta l’eco di questo brano incantevole e la densità regalata dalla tromba e dal trombone, la ricchezza portata da due eccellenti musici in frac ha infatti eseguito nei sensi un fitto ricamo con un filo scarlatto della stessa sostanza dei sogni, ha inciso la morbidezza di un tocco avvolgente, contribuendo all’eccezionalità di quest’avvento di bellezza. In una fenditura di tempo e pace galleggiano i riflessi dei bagliori che fino ad un attimo prima avevano tenuto i corpi inchiodati, imponendogli un sentire che non conoscesse distrazioni o evasioni…è una crepa d’aria muta che riaccende la brama e la sete finché ad appagare non arriva una scossa. Sono di nuovo sul palco gli Afterhours, ci sono con un’elettricità scura, feroce, fatale. L’impeto irruente che investe è il flusso denso delle chitarre e dei colpi alla pelle o al petto, dei fiati che meravigliano, del violino, le cui danze sfrenate portano i sensi quasi alla follia, lacerando con un sublime turbamento. Sui giovani d’oggi ci catarro su, Lasciami leccare l’adrenalina, Germi, 1.9.9.6. scardinano resistenze ed usano l’attrito perché a far da specchio agli astri in cielo ci siano scintille di corpi in terra. Il set elettrico inizia così, con un’onda che trascina in nuove profondità dove trovare furiose ed avviluppanti correnti. Nella voragine che attrae si riceve come un’intima carezza il furore dei canti… Il sangue di Giuda, Tutti gli uomini del presidente, La verità che ricordavo, Neppure carne da cannone per Dio, Ballata per la mia piccola iena…ogni slancio riempie ed arricchisce, segna e in tal modo significa l’anima. La sezione di fiati anche in questo set, sotto la guida sapiente di Enrico Gabrielli, è impreziosita in più occasioni dalla presenza della tromba e del trombone, che risultano magistralmente intrecciati al tessuto delle canzoni. Queste ultime, in virtù delle intense sfumature fatte di respiro, si addentrano ancor più nel sentire e si danno in una forma sublime… È solo febbre o L’estate divengono pura vertigine introdotta nel ventre. Ma nel continuo abbraccio della Cavea ogni brivido ha imposto di essere colto, ingoiato, trattenuto… così i fremiti de La sottile linea bianca, Rapace, Ci sono molti modi e I milanesi ammazzano il sabato. Questi si sono levati maestosi, l’impeccabile voce di Manuel Agnelli e le sue mani voraci, le corde punte, accarezzate e violate da Rodrigo D’Erasmo o i battiti plasmati dalle dita di Giorgio Prette, ne hanno nutrito il sontuoso splendore. E in questo splendore la voglia di restare, di sentire ancora, ha fatto sì che arrivassero a dispiegarsi con tutta la loro acuta bellezza Varanasy baby e Bungee jumping, con le frequenze radiotelevisive a far stridere ed ardere ancor di più le urla del legno e della carne, Bye Bye Bombay e Tarantella all’inazione, Quello che non c’è con l’armonica suonata da Basile, altezza e capogiro, e di nuovo Male di miele. Quest’ultima torna, come furia o scossa, e dice così quanto la musica degli Afterhours, da Mi trovo nuovo, conclusione magnifica di una notte da custodire, fino a Tema: la mia città o Riprendere Berlino, sappia prendere forme diverse, essere nido e abisso, sempre coltello… occasione di piacere e turbamento. Sotto una luna grande e sbieca, morsa dall’oscurità, cerco una parola che possa anche solo lasciar intuire la bellezza accolta nel corso di questa sera pervasa di meraviglia, ma trovo solo un’immagine, la trovo nella memoria di alcune foto di Araki viste qualche anno addietro in una piccola stanza bianca. Il ricordo porta ad una pelle intrisa di luce in cui lo sguardo ha inciso fiori o donne in kimono, legate… in quei segni tracciati dai riverberi c’è la delicatezza della seta, la ruvidezza delle corde, la nudità candida ed insieme sconcertante, c’è la compostezza e la dissonanza, la naturalezza e la distorsione, la cura della forma e l’irruenza della vita, la dolcezza e l’asprezza, il pudore e l’oscenità…tutto concorre ad un equilibrio impeccabile eppure turba, destabilizza. Ecco… così, uguale, gli After questa sera: spago e seta e carne nuda a scrivere con l’ombra e la luce una perturbante poesia. (Lost Gallery)