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The incarnation of your damnation – colica d’amore: Morgan @ Teatro delle Celebrazioni (BO) 11/10/08

Intraprendere un viaggio può voler dire partire per non ritornare, iniziare un nuovo percorso senza necessariamente sapere dove si andrà a finire: lasciarsi alle spalle un passato per non doverlo più affrontare. Ma non è sempre possibile liberarsi dei propri fantasmi. C’è chi, anzi, sembra non volerli lasciare affatto, preferendo accompagnarsi ad essi, osservarli, studiarli, conservarli come parte di sé. Morgan sale sul palco del Teatro delle Celebrazioni con l’abito delle grandi occasioni, protagonista assoluto della serata insieme ai suoi racconti in musica. Un’occhiata furtiva al pubblico, poi si siede scomposto e, mentre la voce di Carmelo Bene ironicamente ripete “va tutto bene, sì, tutto bene“, si prepara. Controlla di non aver dimenticato nulla ed è pronto a partire per un viaggio che non è mera esibizione. Sul palco, al fianco dell’artista, un pianoforte aperto ed una tastiera alloggiata sopra di esso. L’itinerario che intraprendiamo con lui è un percorso fortemente emozionale, come uno scivolo tra diversi sentimenti. Il silenzio anticipa le note del piano, che Morgan accarezza con devozione; con la voce stranamente un po’ roca canta Shine on you crazy diamond (Pink Floyd), magnetizzando il pubblico. Un’interpretazione che non può lasciare impassibili.

Rivolto al proprio strumento, le labbra che toccano il microfono, lo sguardo fisso davanti a sé: per diverse canzoni rimarrà così concentrato, senza dire parola al di fuori della musica e quasi non curandosi di noi, un pubblico che lo ascolta e si stupisce. Sul palco crea confusione, posa gli oggetti ovunque capiti, lancia per aria gli spartiti o li sparge sul piano, come foglie in autunno: agitazione. Questo viaggio inizia così, in modo un po’ confuso, trafelato. Sembra desideroso di correre, di spingersi verso qualcosa di diverso, verso la prossima storia da raccontare interpretando canzoni che fanno luce sulle ombre del suo sentirsi sperduto e stordito. Altrove mette a nudo la complessità dell’animo dell’artista, mentre World full of nothing (Depeche Mode) e l’incantevole Forbidden colours (Ruyuichi Sakamoto, testo di Sylvian) riescono a creare atmosfere di inequivocabile profondità. Morgan, finalmente inizia a parlare con noi che stiamo sotto il palco: ci guarda, anche mentre canta, e ha l’espressione superba di sempre, quella vena istrionica che lo contraddistingue. Ride e sorride tra una canzone e l’altra, continua a far svolazzare fogli, ci traduce i testi per accertarsi che non arrivi solo l’emozione, ma anche il messaggio vero, che alberga tra la melodia e le parole. Così continua a guidarci nel viaggio, che lentamente muove verso atmosfere diverse. L’artista inizia a risollevarsi, a prendere coscienza di sé, forte della sua voce e dell’entusiasmo del pubblico. Lascia il passo alla malinconia, raccontandoci di spiragli, di rinascite, di orgoglio ritrovato che si fonde con la rabbia, e lo fa con le sue parole, (“faccio di tutto per impedire il mio successo stesso / perchè son contro me stesso”) e con quelle di altri (George Michael con One more try trasformata in un blues, David Bowie con Fantastic voyage) fino all’inaspettata Liebestod, che paralizza il fiato a molti. Prendere coscienza del proprio limite, per superarlo: sembra un percorso psicanalitico, questo. Solo l’altissima arte di Fabrizio De Andrè (Un ottico, Un giudice) riesce ad aprire la parentesi felice di questo viaggio, infondendo bellezza e speranza. Raccontiamoci le meraviglie della vita, raccontiamoci dell’amore e dei suoi frutti; questa è l’atmosfera che ora si respira. Per il tempo di qualche canzone Morgan si fa accompagnare da Michele Cortese (Aram Quartet) ed insieme ci cantano dell’amore che vince la guerra, in una toccante versione di Stranizza d’amuri di Franco Battiato. ” ‘ccu tuttu ca fora c’è ‘a guerra / mi sentu stranizza d’amuri… L’amuri / e quannu t’ancontru ‘nda strata / mi veni ‘na scossa ‘ndo cori”. Nuovamente solo sul palco, continua a cantare dell’amore, con voce vibrante e passionale in Amare te. Nuotano nell’aria parole di eleganza d’altri tempi: “Amare te / e’ ragione di vita. / Amare te / e’ il mio vero destino. / Passero’ le ore ad aspettar / che tu ritorni ancor / porgendo le labbra / a chi non potrà / che amare te”. Una volta ancora l’artista, con questa canzone di Umberto Bindi, scava nella tradizione italiana e toglie la polvere da brani che immeritatamente dimentichiamo, o addirittura non conosciamo. Il concerto prosegue, lentamente scivolando verso atmosfere più quiete: la fine è nell’aria. Si odora la malinconia. E così, se tra le scanzonate note d’amore per la figlia appaiono seminascosti alcuni amari sentimenti (U-blue), è con Canzone per Natale che Morgan si avvicina al saluto conclusivo, affidato a Goodnight ladies di Lou Reed. Si dipinge in volto un sorriso sornione, che stride con ciò che canta. Dovrebbe apparire malizioso, ma in realtà l’uomo che vediamo, solo, sul palco… si è già tolto la maschera.
Il nostro viaggio si conclude, ma guardandoci intorno ci accorgiamo che il panorama sembra il medesimo della partenza. Abbiamo girato su noi stessi, orbitando vicini, tutti intorno a diversi sentimenti e sensazioni. Siamo ritornati al punto di partenza, da A ad A, ma le cose non sono più le stesse. Tutto è scorso con noi, tutto è diverso. Siamo più consapevoli, arricchiti dell’emozione di questa serata che Morgan ha voluto condividere. Ha denudato una parte di sé, svelandoci un po’ di quello che i suoi occhi vedono anche attraverso le parole e le musiche di altri, rendendoci partecipi del suo sentire, in varie forme. Sensazioni, attimi raccontati e mostrati come immagini veloci che si muovono dietro al finestrino di un treno in movimento. Il viaggio non prevede sosta, gli elementi sfumano uno nell’altro. I brani che Morgan sceglie di suonare in queste occasioni non sono mai casuali: porta con sé moltissimi spartiti stropicciati, e tra questi sceglie. Ogni canzone è un omaggio, ogni brano rappresenta un artista che ama. Le influenze che più incidono sulla sua persona, ci sono state tutte, una dopo l’altra, passo dopo passo. Il rispetto e la passione per il lavoro di questi altri artisti si percepisce nella cura con cui il protagonista della serata suona le loro note, nell’attenzione che presta ai testi, nella foga con cui scorre le mani sui tasti del piano, nella voce che riempie l’intero teatro. Uno su tutti, Franco Battiato, ha sicuramente contribuito, come artista prima e come produttore poi, a plasmare il talento di Morgan, che con estrema naturalezza fonde le due voci e le due scritture, in una sorta di omaggio costante. “E anche io mi porto sempre fuori e dentro un animale / Che ti vuole e ti viene a cercare”.. “Ma l’animale che mi porto dentro non mi fa vivere felice mai / si prende tutto, anche il caffè / mi rende schiavo delle mie passioni”
La grandezza di Morgan è anche qui: un concerto in cui prevalgono canzoni non sue, ma che lui non si limita a cantare. Sul palco c’è stato un (Re)interprete che non ha semplicemente usato pezzi di altri, ma bensì li ha fatti suoi. Come un musicista suona uno strumento che diventa una naturale estensione del proprio corpo… Marco Castoldi ha “suonato le canzoni”, per prolungare il suo io, in noi. (In collaborazione con Emanuele Gessi, Lost Gallery)

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Un solo commento

  1. Io vivo attraverso i miei fantasmi. Quotidianamente.
    Questo viaggio nei suoi/nei tuoi mi ha strappato sensazioni preziose.
    Grazie…

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