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Struggle between right and wrong (Heart and Soul – Closer, 1980): Joy Division nelle intuizioni di Anton Corbijn (Control, 2007)

Di Vladimiro Vacca, Pasquale Pezzillo (JoyCut), Amalia Dell’Osso

“This is the room, the start of it all / No portraits so fine, only sheets on the wall / I’ve seen the nights, / filled with bloodsports in vain”. (Day Of The Lords). Da questa stanza, concetto metaforico della vita claustrofobica di Ian Curtis, leader dei Joy Division, inizia uno dei film biografici più originali e intensi della storia del cinema che racconta il rock: Control, il capolavoro a basso budget (appena 5 milioni di euro) di Anton Corbijn sulla vita di Ian Curtis, esce solo il 24 ottobre in Italia, dopo numerosi premi (“miglior film europeo” – Cannes 2007, tra l’altro) e critiche entusiasmanti: l’ennesima prova delle gabbie culturali del nostro paese (?). Il film non è una liturgia celebrativo-surreale come The Doors di Oliver Stone ma un film di emozioni che delineano lo spleen, il mal di vivere (fisico e psichico) di uno degli ultimi antieroi della società moderna. Si dà immagine al disagio sociale di uno di noi. “Era un ragazzo normale con la passione del rock dei suoi tempi“, cosi ha ammesso di averlo voluto interpretare l’attore protagonista Sam Riley.

Una fotografia magica in bianco e nero per rappresentare i concetti chiave della poetica di Ian Curtis: colpa, paura, rabbia, claustrofobia, disgusto, sfiducia e curioso fatalismo. Bianco e nero anche per richiamare i colori delle copertine dark dei due album: Unknown pleasures e Closer. Perché scegliere un film come Control? Semplice. Perché è un film sulla figura/leader di una band che ha influenzato tutto quello che attraversa le nostre orecchie, dagli U2 ai  recenti Editors e Interpol. Una band che ha traghettato la new wave nell’eternità della storia del rock. Una band che morde il dolore fin dal nome che sceglie, ancorando la musica al passato tragico del nazismo. Come un uncino nel ventre del disagio, in senso lato.

L’Etica della Fine

Su Ian Kevin Curtis è stato scritto di tutto. Così Tanto da perderne le Tracce. Resoconti infiniti. Dalla dubbia integrità. Fonti inesauribili. Dall’incomprovabile verità. Compagni di Viaggio. Estimatori dell’ultima Arcadia. Semplici Incontri Distratti. Di atti ufficiali – a parte il decesso registrato dal coroner >18 Maggio 1980 –  una Storiografia biografica redatta dalla moglie Deborah. Ma il racconto – si sa – enfatizza i difetti fino a renderli pregi. Giustifica l’ineluttabile. Consacra eternamente l’impalpabile tensione emotiva di una manciata di anni. Un omaggio dovuto. Chiaro. Senza Tempo. Ma è pur da un racconto che si deve partire. Da un Luogo. È Necessario tirare le fila. Razionalizzare ciò che spesso è naturale frutto dell’impeto esistenziale. Cosa resta? L’attraversamento della porta dello spavento supremo. Quella del numero 77. A Macclesfield, sobborgo proletario di Manchester. Un Mix Struggente. La ballata di Stroszek di Werner Herzog in TV. The Idiot di David Bowie in Orbita. Questo il Selciato su cui soggiace la Leggenda. Di contro. Un ragazzo. Ventitrè anni. Sull’arcobaleno indefinito dei primi clamori. In discesa. Dentro e Fuori. Sentimentalmente Frantumato. Fisicamente Devastato. Dalla Dipendenza Farmacologica. Dal Senso di Colpa. Spaventato. Perso. Perduto. Caduto. In Piedi. Senza Carezzar Terra. Mai più.

So it Goes

Curve distorte come neve pesante. Ecco quello che mostra l’ascolto i Joy Division. E ri-capita sempre. Dimenticare di contestualizzarne la dimensione. Ogni volta. Liriche romantiche. Esistenziali. Dinamiche profonde ed atmosfere dilatate. Ritmi batodici ed ipnotici. Tanto che passeggiare i silenzi di Atmosphere* sui sorrisi di Plainsong di Disintegration** diventa un modo per sconfiggere il tempo. Infrangersi nell’illusione di nuovi racconti sul selciato della continuità storica. 10 anni di reciproca e vicendevole sublimazione.
Unknown Pleasures*** è iperuranico. Introspettivo. Inconsapevole dei suoi effetti. L’eterno ritorno alla sua eleganza sarà un continuo esercizio di stile per tutti. In buona compagnia. Dai contemporanei esordi di Siouxsie Sioux ed i suoi Banshees ai primissimi Bauhaus 1919 di Peter Murphy, fino alla pura celebrazione 4AD con i successivi Dead can Dance, Cocteau Twins e This Mortal Coil.
Twenty Four Hours, The Eternal, Decades. Trilogia perfetta. Inseparabili atti. Un concept unico nelle Nove trace del più sublunare Closet****.
Influenza “permanente” in tutte le ragionevoli band di oggi. Fino agli Interpol, Editors e The National. Realtà consolidate che concorrono ancora ad un rinnovato successo abitando ed interpretando le linee scarne ed efficaci dei padri Joy Division e dei loro figli Sister of Mercy o The Mission. Insomma. Impossibile non farne i conti seppur indirettamente.

1977

Pensare che il 1977***** è uno di quegli anni fondamentali per i fenomenologi della cultura sociale britannica. Dagli omonimi Ian. McCulloch > Crucial Three. Curtis > ex Stiff Kittens allora Warsaw. All’eterno passaggio di staffetta fra le due Rivali Città. Liverpool degli Echo & The Bunnymen. Manchester dei Joy Division. Dagli ultimissimi anni di quella decade verranno fuori prepotentemente una serie irripetibile di Realtà che si muoveranno tanto concretamente nel tessuto vitale della società da tracciarne un solco indelebile.  Electric Circus. Martin Hannett. Tony Wilson. Factory Records. Rob Gretton. Haçienda. Una scena virtuosa. Una scena viziosa. Nei Segni. Nei Simboli. Negli Incontri. Nei Luoghi. Nel Linguaggio. In una parola > Mad-chester. In una sola unica Leggenda > Joy Division.

Control

Il film di Anton Corbijn documento sulla vita di Ian Curtis e sulla parabola dei Joy Division lascia senza fiato. Soprattutto per l’incipit. Perché il Controllo è l’unica cosa che Curtis pare non aver mai avuto. Lascia davvero sospesi. Soprattutto gli entusiasti del ben più morbido seppur drammatico 24 Hours Party People******. Certo. Corbijn è Monografico ma con visione contestuale. Winterbottom racconta tutta un’altra vicenda. Quella di Mr.Manchester Tony Wilson. Chiaro che le strade si intersecano. Per di più le fonti devono esser state davvero accuratamente comuni. Il Guado biografico di Ian Curtis è in glaciale osmosi.
Il Film. Magari recuperandone una copia in lingua Mancuniana. Una Fotografia troppo Familiare per non restarne straziati. Impressionante il “suono” delle incisioni reali “registrate” dagli attori protagonisti. Una Storia eticamente complessa. Un vero invito alla Riflessione. Un grande manifesto di una generazione. Davvero. De-generazione? Ri-generazione? In Italia il Film arriva in questi giorni. Non è facile fare i conti con le Sub-Culture… qualcuno smorfiosamente lascia intendere dall’alto. L’importante è che il magma si muova.
Ed oggi, in qualche modo, l’informazione la si va a scovare. Come il vaso di Miele. Sempre che ci sia qualcuno ad investire la propria sensibilità ed il proprio autentico talento nella produzione di fragili vivide sbiadite bellezze come questa.
LostHighways non poteva non sostenere questa pellicola che arriva finalmente in Italia, con un ritardo che hanno provato a contrastare molte persone con tutti i mezzi possibili, inclusi i nuovi canali di informazione web. LostHighways è sempre dalla parte degli antieroi e lascia ad altri la plastica attraente dei forti e decisi gladiatori dell’immagine. LostHighways, usando uno spazio che gestisce a proprio modo (anche dilatando!), raccoglie le voci di quanti si sono battuti perché il film fosse distribuito in Italia e interroga, con la solita e inarginabile curiosità, alcuni artisti del panorama della musica indie che sono stati influenzati o colpiti da una delle pagine più intense della musica dal profondo.

“I’ve got the spirit, but lose the feeling / Feeling” (Disorder – Unknown Pleasures, 1979)
Ian Curtis, la sua personalità, la sua poetica.
Joy Division, la polvere di pochi anni e una rivoluzione musicale.

Senza Controllo
Inquietudine.
Scelte.
Soluzioni.
Leggere Ian Curtis.
Ascoltare i Joy Division.
Percorsi inesorabilmente separati.
Tuffarsi nell’estasi del Mito.
Analizzare con estrema cura il disagio di una disintegrazione.
Tracciati inequivocabilmente distinti.
Le Ragioni nella Sconfitta.
L’Incomprensione nella Solitudine.
Sfondo. L’Irrequieto passaggio.
La Trasformazione.
Del Diventare Adulti.
Sopportare il Peso della Irrealtà.
L’Amore Ferisce.
Sempre.
Quasi Contro Natura.
Finisce.

Gruppo myspace.com/iancurtisfilm:
Più un anno fa, quando il film Control di Anton Corbijn è stato presentato a Cannes, ottenendo nell’immediato seguito numerosi premi e giudizi enormemente positivi dalla critica internazionale, noi abbiamo esultato. Da sempre intimamente coinvolti dal carisma di Ian Curtis, vivissimo ancora oggi a distanza di tanti anni dalla sua tragica fine, ma lontano dallo stereotipo della rockstar che brucia la sua vita in eccessi materiali, tuttora affascinati dalla immortale musica dei Joy Division, pensammo che finalmente ne avremmo visto la storia sul grande schermo. Per di più in versione opera d’arte, perchè Corbijn è un grandissimo e riconosciuto artista del nostro tempo. Ma l’eco prodotta dal film in tutto il mondo, come dimostra il lungo elenco dei paesi in cui è stato diffuso (http://italian.imdb.com/title/tt0421082/releaseinfo), non è arrivata fino al duro orecchio della distribuzione italiana. Le solite evidenti ed aride ragioni di marketing hanno etichettato Control come film destinato ad un pubblico di nicchia, che non avrebbe riempito le sale, né avrebbe arricchito il botteghino. Indignati da tanta ottusità e pochezza culturale, un anno fa abbiamo deciso di creare un profilo MySpace per dichiararci “contro” questo misero atteggiamento, che privava di un vero capolavoro tutto il pubblico che va al cinema. Nel giro di pochi giorni abbiamo ricevuto centinaia di adesioni, decine di persone che insieme a noi hanno dato luogo a un piccolo ma testardo tam tam: sono state inviate e-mail a tantissime testate giornalistiche tradizionali e on-line, radio, tv e a case di distribuzione cinematografica. E’ stata istituita una petizione on line, è stata diffusa l’iniziativa tra innumerevoli blog.  Abbiamo ricevuto disponibilità e realizzato interviste radio ed un passaggi in tv. Inutile dire quanto siamo rimasti piacevolmente sorpresi dalla notizia che Metacinema avrebbe distribuito il film, il buon Giovanni Tamberi, patron della citata società di distribuzione, deve essere un appassionato e, forse, ha anche letto o sentito parlare di noi.
L’uscita è prevista per il 24 ottobre come annunciato da Metacinema stessa e dai canali d’informazione cinematografica ufficiali. Vorremmo vedere il nostro profilo MySpace evolversi in un guestbook di impronte dinamiche lasciate da quanti hanno visto il film al cinema,  e continuare altresì ad essere veicolo di diffusione di eventi musicali e multimediali. Con una certa dose di pessimismo, temiamo invece che non potrà perdere in tempi brevi il carattere di protesta per cui è nato, ma speriamo ardentemente di sbagliarci.

Tommaso Cerasuolo (Perturbazione)
Unknown Pleasures è stato il secondo vinile acquistato nella mia vita, insieme ad un caro amico dell’adolescenza. Il poster della copertina è stato appeso per tantissimi anni in camera mia. E tuttavia posso dire senza vergogna che anche io conoscevo poco Ian Curtis. Sono del 1972. Non avevo l’età per assistere di persona al passaggio della meteora Joy Division. Si tratta di un gruppo celebrato molto più dopo la sua morte che prima. Pochi si sono soffermati sulla poetica di Curtis, concentrando tutta l’attenzione sulla totale immedesimazione dell’artista con l’immaginario che evocava la sua voce. Mi è sempre interessata di più l’atmosfera claustrofobica che sprigionavano la musica, i testi più del culto legato al suicidio. Anni dopo ho trovato il libro Faraway so close di Deborah Curtis, liberatorio. Ero troppo giovane e immaturo per capirlo allora, ma credo che ciò che mi attraeva, e che mi affascina ancora oggi, di quella musica fosse la totale emotività che si nascondeva dietro all’aspetto glaciale.
She’s lost control e Love will tear us apart sono i pezzi cui sono più legato.
Riguardo la questione della distribuzione del film… è difficile per la grande distribuzione curare un prodotto che interessa molto a una nicchia, come in questo caso. C’è poco spazio per le minoranze, la cultura generalista è l’ultima frontiera del consumismo. Ian Curtis va bene solo se riesci a trasformarlo in un supereroe della sfiga da vendere anche ai giovanissimi. Io lo chiamo fascismo tecnocratico: solo contenitori grazie, i contenuti cosa importano?

Lele Battista
I Joy Division mi hanno influenzato molto, forse più umanamente che artisticamente. Per me rappresentano un canone estetico e culturale ben preciso. Hanno definito un modo di pensare neo-esistenzialista (forse anche per il suicidio di Ian Curtis e per l’essere stati capostipiti di una certa corrente dark) per la profondità dei testi soprattutto: la società inglese di quel periodo ne è ben rappresentata. Molto spesso i testi legati alla musica inglese in traduzione generano delusione; la musicalità, a volte malinconica, di certa produzione inglese indice a dedurre dei testi molti più profondi di quelli che in realtà sono. Poi ho amato più i Cure, ma i Joy Division mi hanno proprio colpito per quel modo di essere che nell’età dell’adolescenza influenza moltissimo e, magari, rimane un punto di riferimento. Ho più di trent’anni e rimango legato, nel mio pensiero, a quel tipo di mondo.
Amo molto Shadowplay per un motivo particolare. Ho conosciuto i Joy Division tramite una cover di quel pezzo. Una cover degli Afterhours, inclusa in una compilation (Something about Joy Division, 1990 n.d.r)della Vox Pop. Facevo un programma con un amico per una radio a Milano, arrivò questa compilation e noi ogni sabato trasmettevamo Shadowplay in quella versione meravigliosa. Successivamente comprai i dischi!
Sono felice che il film esca in Italia. Ero scioccato e scandalizzato dal fatto che non fosse ancora distribuito. Una dinamica che fa riflettere. Chi opera in questo settore crede, probabilmente, che siamo tutti dei rimbambiti, che non abbiamo bisogno di quella poesia. Conosco molte persone che si sono procurate il film all’estero.

Casador (Alessandro Raina)
Dirò una cosa che farà rabbrividire tanta gente ma che ho sempre pensato. La scomparsa di Ian Curtis rappresenta per me una tragedia per l’umanità (come ogni morte innocente) e una fortuna per la storia della musica pop. Senza quell’epilogo probabilmente non avremmo mai avuto i New Order e tutte le canzoni praticamente perfette con cui Hook e soci hanno reso la nostra vita meno amara. Ian Curtis cantare Regret? Io non ce lo vedo.
Detto ciò io ho sempre preso i Joy Division e il culto di Ian Curtis con tanta attenzione quanta cautela, non vedendo nella band nè nel suo frontman nulla di ‘assoluto’, che per me – non addentrandomi nella classica – in musica vuol dire Bowie, Coltrane, Davis, Jimi Hendrix, Beatles, Bob Dylan, Neil Young, Lou Reed, Lucio Battisti, Smiths e pochissimo altro. Poi un giorno sono capitato in un bel negozio di dischi usati che oggi non esiste più, in Upper Street a Londra, e mi sono perso in una foto di Ian Curtis per interminabili minuti. Concludendo che in lui, nell’algida e involontaria eleganza di quel grigio, nell’involontaria purezza (una purezza del resto non è mai volontaria) di quello sguardo, ci fosse qualcosa che è iconografia, punto e basta. Che al di là di come cantasse e al di là del fatto che i Joy Division restino un gruppo la cui fama deve al suo breve e maledetto destino tanto quanto alla reale grandezza di composizioni a tratti ridondanti e noiose, Ian Curtis è venuto al mondo per rappresentare ‘qualcosa’ di potentissimo, il crisma di una drammatica bellezza che resiste finchè può alle aggressioni di mille difficoltà. Ne sono prova le tracce sulfuree della sua presenza che riemergono, fra tanti, troppi insopportabili imitatori, nelle bellissime musiche di gente come i National, le Organ o gli Editors.
Il pezzo a cui sono più legato è probabilmente Atmosphere, anche grazie al video postumo di Corbijn che dando il massimo della sua arte visionaria celebrò le ambiguità e i silenzi attorno alla fine annunciata di Curtis citando un episodio storico a tutt’oggi poco chiaro e conturbante: la crociata dei fanciulli. Nel 1200 un pastorello francese seppe condurre, predicando di avere parlato con Cristo, quasi diecimila bambini verso un’ipotetico ritorno in terra santa terminato con un’immane catastrofe. In quel video e nella canzone c’è tutto il meglio di Curtis e dei Joy Division. Essenzialità, incomunicabilità, eleganza, pessimismo, lo spettro di un tempo messo in musica.
Nel nostro paese ci siamo illusi che vedere Garrone e Sorrentino premiati a Cannes significasse che l’Italia riconosce e premia il cinema di qualità. Ora però nelle strade delle nostre città campeggia il manifesto di Albakiara ed è tornato tutto normale. Il nostro paese non ha bisogno di gabbie culturali, basta l’ignoranza e il degrado a cui ci siamo consegnati irrimediabilmente accettando con gioia la dittatura televisiva. Nel nostro paese gli studenti, che contribuiscono a fare dell’Italia un odei luoghi in cui si legge di meno, protestano e spernacchiano a favore dell’università, che in quanto tale andrebbe abolita, e non per la merda che la radio e la tv passano, o per la cocaina spacciata alle scuole medie. E’ quindi giusto che l’Italia si coccoli i suoi panarielli e chi ama la cultura faccia quel minimo di fatica che serve a procurarsela anche se non la trova al cinema sotto casa.

Walter Clemente (Deasonika)
Una volta che non ne provi repulsione, trovo sia molto difficile ascoltare i Joy Division e non esserne in qualche modo toccato; certo, il modo di suonare di Peter Hook mi ha colpito molto, così “anomalo”  e accattivante, su alcuni pezzi molto incline a tessere una parte più melodica che ritmica ma anche estremamente pulsante e ossessivo su altri. Ovviamente i Joy Division hanno rappresentato molto più di questo.
Brani come Isolation, A New Dawn Fades, Heart and Soul e Twenty Four Hours trapassano la pelle come aghi.
Difficile affronatare la questione delle dinamiche legate alla distribuzione. Mi sembra, sinceramente, che ci sia semplicemente molta reticenza nel diffondere opere che non garantiscano un certo rientro economico e che comunque interesserebbero un ristretto numero di persone, indipendentemente dal loro valore culturale: un ottimo atteggiamento, direi, per lasciare la situazione invariata e farci meglio godere lo spettacolo che ci circonda. È verissimo che la cultura ha un prezzo: sempre troppo alto, evidentemente.

Valerio Griselli (Virginiana Miller)
I Joy Division sono stati la mia prima folgorazione musicale, appena dopo le cazzate adolescenziali indotte dalla frequentazione scolastica obbligatoria. Per anni sono rimasti in vetta alla mia personale top ten, conoscevo tutti i testi a memoria e non riuscivo a fare a meno di cantarli ogni volta che mettevo su i dischi. Commemoravo mestamente il giorno della morte di Ian Curtis (come quello di Gilles Villeneuve), compravo libri sui Joy Division e mi incazzavo perchè certe traduzioni dei testi erano davvero improponibili. Poi cominciammo a suonare. ricordo la prima prova del gruppo che sarebbe poi diventato Virginiana Miller: provammo a suonare Disorder, ma non ci riuscimmo mica… la più grande e consolatoria lezione impartita dai Joy Division fu questa: per suonare non serve saper suonare. Disorder fu abortita. anche Should I stay or should i go veniva male. Nonostante questo, il terzo pezzo che cominciammo a provare fu un pezzo nostro!
Un tale Alfio, sedicente cantante, un giorno mi invitò a casa sua e mi fece sentire un sacco di musica, saltando in modo schizofrenico dai King Crimson ai Bauhaus, dai Black Sabbath ai Joy Division. Per giorni mi restò in testa The eternal maldestramente incrociato con Decades, e quando finalmente riuscii a separarli furono i primi pezzi ai quali mi legai. Poi nel primo nostro concertino, non soddisfatto di suonare male la batteria, volli cantare (orribilmente) New dawn fades. Non ho mai più avuto la sfrontatezza di cantare davanti ad un pubblico (se si eccettua una mia rivisitazione di Lucio Dalla in un locale deserto in quel di Vada (LI), accompagnato al pianoforte da un ancora sconosciuto artista da pianobar che rispondeva al nome di Andrea Bocelli). Anche questo imbarazzante ricordo crea un legame particolare con quella canzone.
Riguardo il film, è davvero incredibile, specialmente in un periodo in cui sono state riesumate tutte le più fetide salme degli anni 80… ma ho smesso di chiedermi il perchè di queste cose. Tanto non arrivo a capirle.

Gianluca Maria Sorace (Hollowblue)
Ho scoperto i Joy Division nella mia tarda adolescenza, quando nel lontano 1986/7 vestirsi di nero in Italia, per quanto buffo possa sembrare adesso, ti faceva additare come lo strambo del quartiere. Sono stati, insieme a Bauhaus, Virgin Prunes e pochi altri, uno dei miei primi ascolti “oscuri”. A distanza di un anno formai il MIO primo gruppo ed era new wave fino in fondo: The Moss Garden, prendendo a prestito il titolo di una canzone del Bowie che amo di più, quello berlinese. I Joy Division sono stati per me un esempio di musiche e immagini (poche) rigorose che coniugava l’energia con la malinconia. Nel tempo gli abiti sono diventati blu ma non per questo ho smesso di apprezzare quel senso di disperazione e forza sia nelle liriche che nella musica. Forse l’unica cosa dalla quale mi sono allontanato è il senso di claustrofobia senza via di uscita che sempre mi hanno trasmesso.
Sono legato a diverse canzoni, in particolare Transmission che rientrava nei live dei Moss Garden ma forse ancor di più ad alcune canzoni dell’album di singoli Substance: Warsaw e Leaders Of Men su tutte. Mi piace sentire il suono ancora sporco e immediato a cavallo tra punk e new wave.
L’arrivo del film, dopo un anno e mezzo! E’ increbile come l’Italia stia facendo passi da gigante… all’indietro. Normalmente non mi piace lamentarmi della situazione italiana ma lo stato in cui versano le condizioni economiche, sociali e culturali attuali mi fanno essere pessimista per il futuro prossimo. Sembra di aver intrapreso un processo di imbarbarimento culturale dall’alto che fortunatamente sta portando a reazioni costruttive dal basso.

Luca, Ale, Chris (Pitch)
Ian Curtis ci ha colpito fin dall’esordio, divenne subito un’icona ed entrò di prepotenza nel nostro immaginario. La cosa che più ci cattura è la sua immagine durante il live: movimenti compulsivi che sgretolano l’anima e che di riflesso si collocano nel contesto musicale con estrema armonia. Ancora oggi, riguardando le performance, immaginiamo che i suoi occhi siano alla continua ricerca di un orizzonte mai trovato. Proprio attraverso questa immagine riusciamo a percepire la sua difficile condizione esistenziale attraverso il suo dolore interiore rigettato al di fuori senza ogni controllo. I  Joy Division hanno influenzto intere generazioni di musicisti. L’utilizzo del basso come strumento principale ad esempio è una delle svolte della musicalità dei JD. Il suono scarno e semplice riempito da ritmiche compulsive e dalla voce sgraziata e profonda di Ian Curtis. I testi sempre significativi e mai banali pieni delle esperienze e del dolore di Ian ti lasciano il segno e ti fanno desiderare di comunicare qualcosa al mondo con quello che fai come artista e come persona.
Difficile trovare la mia canzone preferita tra le miriadi di perle musicali scritte dai Joy Division, di sicuro la canzone che sto ascoltando di più in assoluto in quest’ultimo periodo è She’s lost control in quanto il riff di chitarra ipnotico ed arrogante si intreccia alla perfezione al giro di basso distorto mentre la ritmica ossessivo- tribale crea un effetto a mio avviso micidiale e struggente, per non parlare del testo, quale ragazza adolescente non ha perso il controllo ed è annegata dentro le parole di Ian? (Ale). Splendida anche Love will tear us apart, il primo capolavoro del pop moderno. Semplice, diretta, indimenticabile. La poetica del testo è assoluta, carica di tutto lo struggente mondo di Ian Curtis, piena di sofferenza per il desiderio di un amore che provoca il dolore più grande nel momento stesso in cui ti rendi conto di come le cose cambiano sotto i tuoi occhi in modo inevitabile (Chris).
Il film è splendido, ottimi attori, ottima colonna sonora. Molto fedele alla vita e alle vicende umane di Ian Curtis e soci. Basato sul libro scritto dalla vedova di Ian, racconta inevitabilmente anche le debolezze e i difetti di un grande artista. All’estero ha raccolto premi e riconoscimenti tanto da pensare che sarebbe arrivato subito anche in Italia. Evidentemente le logiche di mercato non prevedono il rischio su di una pellicola cosi settoriale anche se di alta qualità. Il regista Anton Corbijn è un grande video maker ma anche grande conoscitore e amico dei Joy Division, e la sua mano si vede. Comunque meglio tardi che mai… e in ogni caso, visto che esiste internet e siamo in un mondo globale (come piace tanto dire a tutti ), quello che ti interessa puoi sceglierlo, cercartelo e godertelo per conto tuo senza aspettare canali ufficiali.

Ciro Tuzzi (EPO)
I Joy Division sono stati per me una sorta di ascolto subliminale, nel senso che erano uno dei gruppi che mio fratello ascoltava di più e quindi qualcosa deve essere rimasto di quello spleen nella mia testa, magari mentre facevo i compiti di matematica. La musica dei Joy Division ci ha influenzato in una maniera “indiretta”. Credo che buona parte dei gruppi che ascoltiamo debbano qualcosa alla band di Ian Curtis, mi riferisco ai Radiohead, Interpol, Placebo.
Mi piace moltissimo il riff di chitarra di Transmission.
In Italia tutto è stato schiacciato, c’è la dittatura della maggioranza. La maggioranza delle persone vuole vedere filmetti disimpegnati? Si distribuiscono solo quelli. La maggioranza delle persone vuole ascoltare musica insipida? Si distribuisce solo quella. Potrei continuare all’infinito.

Nina
La seconda metà degli anni ’70  e la prima metà degli ’80 costituiscono, nell’inconscio collettivo, una sorta di fonte da cui sembra scaturire inesauribile sostanza plasmabile, potabile e incredibilmente adeguata ad ogni possibile “blend” culturale. Mangiata con occhi adolescenti e precocemente vissuta e digerita, ha rappresentato nella mia formazione umana-culturale-musicale la totale apertura degli occhi su una realtà politica ottusamente rivolta a schiacciare qualsiasi tendenza evolutiva nella coscienza civile. Tensioni e contraddizioni sociali, conflitti su larga scala, recessioni economiche e diritti umani violati mai hanno prodotto, come in quel periodo, un risveglio tanto violento quanto poetico nelle coscienze individuali e collettive. Il fermento artistico europeo non ha paragoni, è prova manifesta del fatto che senza contraddizioni e tensioni non c’è vita: si nutre così tanto che a volte esplode e si dirama, si insanguina e raggela, tocca gli eccessi di vita e morte e sembra non avere fine né limiti. Il punk stravolge le regole, anche quelle del mercato, anzi ne viene ucciso ma lo spirito di araba fenice gli permette di trasformarsi, autorigenerarsi: ho amato Crass e Poison Girls, ne ho amato urlo e coraggio, istinto e direzione… e ho amato, direi vissuto empaticamente, i Joy Division. Ian Curtis, il gelo dentro, l’oscurità del timbro che entra senza violenza e trova risonanza nella fragilità della speranza, nella nera visione del reale, nella caducità degli sforzi emotivi del vivere di ogni parte inquieta di animo. Era così allora, quando ero precoce tredicenne, è ancora così, quando ricerco quella parte di me che contengo e difendo per poter continuare a sentire… attingere da quel mondo e partorire musica-vita in rinnovate visioni dell’esistenza. La poetica di Ian Curtis rappresenta l‘elevazione di ciò che è vero a discapito di ciò che è “giusto-buono-corretto”;  rifiuta l’estetica melodica e riafferma la verità della melodia scarna e cruda. Ha appreso la lezione dei suoi miti, la rielabora nelle vene e sprigiona il proprio fluido. Curtis non è uno dei miei maestri ma lo porto con me nel viaggio della musica con tenerezza, gratitudine e passione.
E’ incredibile come The only mistake, Trasmission siano ancora così contemporanee e vitali pur nelle ritmiche oscure e ossessivamente lineari. Personalmente amo brani come Atrocity, Atmosphere, New Dawn Fades… percorrono sonorità e tematiche che vibrano in unisono con la mia musica interiore. Oggi c’è la tendenza ad usare parole che “funzionano”, o le si fa funzionare con una certa violenza. Curtis usa un linguaggio emotivo laddove le parole non vedono l’ora di suonare.
Il film e le gabbie culturali nel nostro paese? In un circo degli orrori così fantastico le gabbie non possono che essere sofisticatissime e con adeguati sistemi di sicurezza. Fortunatamente sia l’animale che l’essere umano possiedono una grande risorsa: l’attitudine innata a guardare dentro e oltre le fessure. E l’istinto ad abbattere la gabbia. Heart and soul: “An abyss that laughs at creation, / A circus complete with all fools, / Foundations that lasted the ages, / Then ripped apart at their roots. / Beyond all this good is the terror, / The grip of a mercenary hand, / When savagery turns all good reason, / There’s no turning back, no last stand. / Heart and soul, one will burn. / Heart and soul, one will burn.”. Pazzesco! Questo brano dice ogni cosa.

gianCarlo Onorato
Il mio personale modo di accogliere le dimensioni di ciò che chiamiamo arte è stato da subito totale, coinvolgendomi psicofisicamente. L’espressione è qualcosa che ci chiama a raccolta per intero, nel caso di Ian Curtis e Joy Division per me è stata una scoperta d’amore, esattamente identica a quella che accade quando dopo un’estenuante e vana ricerca, ci si sente all’improvviso finalmente in completo contatto con qualcosa o qualcuno. Il gruppo di Manchester mi ha acceso la scintilla dell’intuizione che mi abitava, quella che produrre musica doveva voler dire rappresentare le cose fin dentro. Così, dopo la sbornia del punk, nella cui filosofia era per me facile e naturale identificarmi, ma non troppo nell’assunto estetico e formale, i Joy Division arrivano a compiere il miracolo di portare una poetica vera nelle faccende del fare musica. Il fatto che un gruppo di ragazzini come me avesse dato una chiave di interpretazione della realtà che accogliesse e rappresentasse il dolore, fu una sorta di simbiosi. Qualcosa di cui avrei sofferto l’assenza se non si fosse presentata. La poetica di JD, già a partire dal nome, con quel richiamo a un passato atroce, ma anche con un’insolita, ieratica capacità di trasmettere il silenzio e la tragicità naturale della vita, la sottrazione di sé, un’attesa spasmodica di un sole scialbo, l’essenzialità stessa del loro suono e infine la malattia come condizione di base, furono per me l’attesa conferma che in musica si potesse proiettare davvero ciò che conta dentro. E che questo riguardasse tutti, che lo si volesse o no. Per me fu definitivo che avrei sempre cercato il significato e che, qualunque sia la strada intrapresa, si possa fare sul serio solo sentendo nel profondo e nella propria esistenza l’espressione come un fatto necessario. Questo non è pop. Non c’è nulla di male a preferire gli struggimenti che hanno attraversato la scena internazionale, potendo essere ricondotti al pop. Non così con Joy Division. Nulla di sacro, la stessa copertina di Closer riesce a superare la sacralità rivestendola di un’angosciosa aura di ossimori, in cui la staticità e l’ineluttabilità della fine si fondono ed eleggono altra dimensione, in cui rabbia e pietà danno vita a un nuovo sentimento luminoso. Non “sacro” dunque, ma un avvenimento profondo, serio e complessivo. Nello stesso periodo in cui morì Curtis, una sera mi imbattei in una pellicola minimale e desertica, colma di angoscia, della quale ricordo solo quelle che, credo, dovevano essere le ultime sequenze: un uomo col cappello sale su una sorta di funicolare, o cosa simile e dopo poco riecheggia uno sparo sull’immagine di un gioco grottesco, in cui alcuni polli girano a vuoto in un recinto. Il film è La ballata di Stroszeck di Herzog. La sua visione mi aveva desertificato, mortificato e scoprire in seguito che fosse stata, a quanto si disse, l’ultima visione di Curtis prima di uccidersi, fu un forte turbamento. Non ero solito leggere le biografie, né leggere i testi, io i dischi li ascoltavo, volevo coglierne il senso, lontano dalle citazioni e dai condizionamenti, ma un legame nascosto con l’opera di Curtis non mi era sfuggito. Rinnovando la sensazione di condivisione psichica con chi sente le cose dal di dentro.
Decades. Potrebbe essere la marcia funebre della perdita, una sorta di manifesto estetico di un tempo in cui l’individuo si è perso del tutto, e nello stesso tempo vi riecheggia una luce accecante, un rimando ad altro riscatto, rimasto però non colmato. In un solo brano tutte le bellezze possibili.
Riguardo la questione della tarda distribuzione: un filosofo contemporaneo, Vladimir Jankélévitch, ha molto colpito prendendo le cose della filosofia con un taglio mirabilmente spicciolo. Traducendolo qui in modo ancora più brutale, tra le tante cose, sostiene che il coraggio, e direi la forza, consista nel saper permanere in una condizione di svantaggio. La vera forza in Italia è quella di continuare a perseguire le idee e il senso delle cose, pur immersi in una realtà di generale negazione dell’intelligenza e del miglioramento.

Andrea Fusari (Guru Banana)
Ho avuto un paio di amici suicidi in quel periodo, non ricordo nemmeno se prima o dopo i JD, l’effetto è che quando li ascolto immagino uno schermo nero, che poi è quello che volevano dire, no?
Ricordo delle canzoni… Love will tear us apart, A means to an end, She’s lost control, ma in coda alle cassette C60.
Il film. Non si tratta di gabbie culturali. Certa mentalità ottusa si è propagata alle generazioni successive trovando terreno di “coltura”. Dell’ottimo humus, un’immagine della cosa e si capisce che cosa intendo. La distribuzione non è più un concetto anche culturale ma strettamente economico: hanno contato i sopravvissuti agli 80 e fatto una statistica di quanti  avrebbero potuto vederlo, per scoprire che gli conveniva poco. Ai giovani non hanno pensato, a loro ci pensa MTV e quelli mica fanno film, vero?
Poi siamo nel 2008, un film che finisce male… magari un ritocchino nel finale? Del film mi interessa innanzi tutto lo spaccato del periodo. Sono certo che riuscirò a vederlo. A costo di sottotitolarlo personalmente.

Daniele Tenca
Non ne sono stato influenzato direttamente, direi. I Joy Division mi sono arrivati attraverso chi ha assorbito di più quella rivoluzione musicale e (anche) da lì è forse partito, e penso soprattutto al cantato di Bono in tutto Boy, per dirne una. Ma questo, come spesso mi accade ascoltando musica, l’ho capito dopo.
Come dopo, ascoltando i Joy Division, ho capito che quella rivoluzione ha fortemente coinvolto nelle scelte di produzione di quel periodo anche artisti “insospettabili” e dischi senza i quali sicuramente non sarei un musicista. Su tutti, Darkness on the edge of town di Springsteen, 1978.
Shadowplay. E’ il primo pezzo dei Joy Division che ho ascoltato. Era una cover di Manuel Agnelli in una compilation di 15/20 anni fa, credo. Da lì ho ascoltato il resto. Ritrovarne il video nel primo dvd degli Afterhours è stato bello, mi ero dimenticato che l’avessero suonata. E se ascolto il piano in quella versione mi viene in mente Roy Bittan, ma sono io che sono pazzo di sicuro.
A proposito del film… come se ultimamente avessimo bisogno di un’altra conferma in merito di gabbie. Mi ricordo la fatica per andare a scovare al cinema Last Days due o tre anni fa a Milano, quindi non mi aspettavo certo di meglio. Dietro la macchina fotografica Corbijn per me è un genio, a maggior ragione, viste le aspettative, questo film non me lo perdo di sicuro.

Lo.Mo
Avevo dieci anni quando la favola nera dei Joy Division e di Ian Curtis finì, quindi solo alcuni anni dopo ne fui realmente travolto, leggevo al tempo Rockerilla e mi interessai ai New Order, comprai Brotherood e cominciai a compiere i primi passi nella new wave a ritroso. Uunknown pleasure rivoluzionò la mia vita, la copertina straordinaria, da custodire gelosamente vicino alla banana dei Velvet Underground e al Joe Strummer di London Calling e poi il primo chiodo e la prima band, la politica, l’anarchia e una punta di nichilismo.
Shadowplay e She’s lost control facevano parte del repertorio dei Nemesi, il gruppo nel quale mi feci le ossa, spesso come un clone di Ian Curtis, copiando le movenze da “epilettico” e la voce baritonale, ma il brano a cui sono più affezionato e Love will tears apart, collezionavo versioni (capolavoro quella degli Swans).
Sorpresa! Confusione e un po’ di smarrimento sapere che un personaggio molto alla moda come Anton Corbijn si occupasse di una figura vissuta nell’ombra, tutt’altro che esteticamente accattivante, quasi fosse un Jim Morrison, Syd Vicious o Kurt Cobain di quegli anni. No! Ian Curtis non era niente di tutto questo, era la classe operaia riottosa al paradiso che abitava le fabbriche e di notte affallava le cantine fumose di Manchester, pigiati attorno ad un palco squallido. Cosa possa rendere interessante al grande pubblico quella stagione mi é sconosciuto, sicuramente in me ha risvegliato la voglia di spolverare i vecchi dischi della Factory e riascoltare quei suoni che oggi sono ancora più alieni di ieri. Non credo si tratti di gabbie per quanto riguarda la lenta distribuzone, penso solo che i Joy Division abbiano rappresentato tanto ma per una nicchia di persone, se si pensa che non hanno nemmeno una canzone entrata a far parte dell’immaginario collettivo, questa potrebbe essere la spiegazione della difficoltà nella diffusione della pellicola.

Marco Milanesio (9cento9)
Il tutto è avvenuto in un periodo in cui, vivendo l’adolescenza, trovavo affascinante e sentito provare emozioni che così bene si fondessero con le sonorità e le liriche di Ian Curtis e i Joy Division.
Sentite e vissute come sensazioni fortemente oscure ma alle quali ho mai concesso di  isolare aspettative e speranze, anzi il tentativo dirigeva gli sforzi proprio verso il poter esorcizzare l’incapacità di avere una visione armonica dell’ (r)esistere. Valorizzare l’unica possibilità che è quella di non dare un senso univoco all’esistenza. Il prezzo lo si conosce, contraddizioni e senso del vuoto che non ti sai spiegare ma che molto probabilmente è un modo per non dimenticarci di ciò che siamo.
Su tutti i pezzi amo molto Shadowplay.
Purtroppo non avevamo bisogno di un’ennesima riprova rispetto alle gabbie e imposizione di ristrettezze culturali che nel nostro paese trovano terreno fertile. E’ appunto il terreno fertile che invece lascia perplessi. L’incapacita’ di sentirsi indignati, di accettare passivamente che questo sia il modus vivendi, che il senso di un certo pudore venga sotterrato da arroganza e meschinità. Si potrebbe essere un poco più ciò che vorremmo semplicemente con il tentativo di rinunciare a quello che attualmente ci è dato di volere.

Marco Bagagiolo (Zabrisky)
I Joy Division fanno parte del mio “corano” musicale. Sono stati una di quelle band di rottura da cui è impossibile prescindere per chi almeno tenta di fare musica.
Amo molti pezzi dei Joy Division, ma cito Transmission perchè quando avevo un locale era “imposta” nella play list dei dj.
Più che di gabbie parlerei di un vero proprio impoverimento culturale che il nostro paese sta subendo da qualche anno.

Mimmiz (Macno)
Come artista, sicuramente sono stato influenzato da Ian Curtis. Adoro le cose che ha scritto, e la disperazione, la desolazione, la voglia di niente che aleggiava nelle sue liriche, la troviamo presente anche nei dischi che escono oggi. E’ stato un pioniere, a suo modo. Come uomo, non saprei: direi di no.
Veramente difficile sceglierne una sola canzone. Mi hanno accompagnato per troppo tempo, e ancora lo fanno. Se proprio devo, dico Atmosphere: una delle poche canzoni che potrei ascoltare 24 ore su 24. Un piccolo mantra in bianco e nero. Tutte le volte che la si ascolta, dà l’impressione che stia per esplodere in qualcosa che in realtà non arriverà mai. Inarrivabile.
Prova a scendere in strada e chiedi alle prime dieci persone che incontri se conoscono Ian Curtis. Ecco, avrai la risposta. Un film su Bob Marley non avrebbe avuto nessun tipo di problema a trovare una distribuzione immediata, senza nulla togliere a Bob Marley. Non è la prima volta che arriviamo in ritardo, (io aspetto ancora il film di Tom Barman, uscito nel 2003!), ma cosa dobbiamo farci? Presente Don Chisciotte? Godiamocelo ora. Chi voleva vederlo, l’ha già visto in lingua originale, come ad esempio ha fatto il sottoscritto.

Luigi Cozzolino (El-Ghor)
Ho avuto modo di ascoltare bene i Joy Division a 14 anni, era il periodo in cui venne alla luce l’ennesima o forse la prima raccolta sulla band: Permanent. Ricordo ancora la cassettina registrata dai vinili di mio fratello, sulla quale c’erano i due album, praticamente consumata. Ricordo la prima volta che ascoltai con attenzione la voce di Curtis che proveniva dalla stanza di mio fratello, rimasi incantato. Ascoltava quei dischi da mesi ed io non avevo mai notato tanta bellezza e poesia. Con il tempo ho capito che l’arte di Curtis e compagni non la si può vivere come un semplice ascolto, bisogna entrarci dentro, chiudere gli occhi e lasciarsi sedurre. Ne ho passate di notti sul divano di pelle nera con il giradischi e le cuffie, aspettando un vero e proprio bombardamento di emozioni. Un artista e una band sempre presenti nei miei ascolti; non li ho mai sentiti tristi o stancanti, sicuramente non solari, ma intensi.
Amo tutte le canzoni dei Joy Division, ricordo con grande piacere ciò che generavano i primi 30 secondi di attesa di Disorder, prima del vocione glaciale: assoluta voluttà.
Per il film…non credo ci sia tanto da dire, parlano i fatti!

Fabio (Edwood)
Sicuramente i Joy Division sono stati una meteora importantissima della musica moderna, consolidata poi anche da tutta la lungimirante carriera dei New Order, personalmente credo che tutto ciò che è venuto dopo in ambito new wave abbia assimilato la loro lezione di spontaneità, romanticismo, poesia e irruenza.
Non avendo vissuto in prima persona per questioni di età il periodo Joy Division e i 2-3 anni successivi rimango un po’ defilato per quanto riguarda la parte emotiva, scoperti comunque 15 anni dopo me ne sono innamorato.
A me piace molto, preso nella sua interezza, Unknown plesure (che è poi l’unico vero album). Difficile scegliere un brano in particolare, anche perchè credo siano l’esempio di gruppo da prendere in toto, sfortunatamente in questo caso solo per una manciata di canzoni.
Come tanti appassionati ho avuto già modo di vedere il film in lingua originale, a mio parere penso sia proprio il film da lasciare così com’è, non conosco l’edizione italiana, ma essendo un film musicale, trovo che il doppiaggio possa essere un po’ ingeneroso; non mi sarei sorpreso più di tanto della “non pubblicazione” del film, nell’era del blockbuster tali opere spesso non sono prese in considerazione; tra l’altro, se mi posso permettere di dare un giudizio, l’attore che interpreta Ian è straordinario, una somiglianza stupefacente.

My Own Parasite
Ne sono stato influenzato, purtroppo solo di riflesso, non ho vissuto in quel periodo i miei vent’anni… nonostante questo le prime volte che ho ascoltato i Joy Division mi sono trovato quasi a disagio, tanto riescono ad inserirsi in modo trasversale nell’emotività di chi li ascolta. Non era punk, ma qualcosa mi rimandava a quell’attitudine, non era proprio “solo rock’n roll” perchè era troppo nero. E quindi mi ricordo di essermi innamorato di loro con un’espressione corrucciata/imbarazzata
Direi che è molto difficile decidere per un brano su tutti: She’s Lost Control ha il riff di basso più bello di sempre, la sua semplicità mi conquista continuamente. Disorder, invece, ha il riff di chitarra più bello di sempre, ed essendo io più vicino a questo strumento, credo che opterò per quest’ultima: ma con molte difficoltà.
Control e le gabbie che sono diventate fortezze. Non c’è purtroppo fondo al livello di ignoranza, incuria e stupidità che si sta stabilendo, come livello medio, nella nostra piccola repubblica delle banane. Siamo troppo attirati dalle mode per avere una “nostra” scena musicale realmente radicale. Avere fenomeni, in ambito rock, come i Joy Division è impensabile in Italia, qui arriva tutto già mangiato e digerito, oppure non arriva proprio, e se arriva è per il rotto della cuffia (vedi Il Film di Corbijn). Il pubblico per sensibilizzarsi a prodotti qualitativamente elevati, e quindi richiederli, deve prima di tutto fruirne. E, ripeto, in Italia è difficile. A volte mi sembra che i nomi di spicco Italici dell’indie, del rock e del pop non siano altro che delle cover band che suonano i b-side di band che sono nate in Inghilterra o in America tre anni prima. Questo appassire delle idee, porta con sè la povertà degli stimoli e il dare per scontato che, tanto siamo in Italia, e il film sui Joy Division forse non lo distribuiscono.

Note

[*]Atmosphere/Dead Souls > Secondo Singolo Inedito > Pubblicato nell’ ottobre del 1979 > dopo l’uscita dell’Album Unknown Pleasures.
[**]Disintegration > Nono Album Ufficiale dei The Cure > Pubblicato il 1° Maggio 1989 a 10 anni dall’Album di esordio > Three Imaginary Boys > Pubblicato l’8 maggio 1979.
[***]Unknown Pleasures > Primo Album Ufficiale della Band > Pubblicato nel Giugno 1979.
[****]Closer > Secondo Album Ufficiale della Band > Pubblicato nel Luglio del 1980 > Un paio di mesi dopo il drammatico suicidio di Ian Curtis.
[*****]1977 Anno di registrazione del primo 10” > At a later date > Short Circuit > Live at the Electric Circus > Manchester 2.10.77
[******]24 Hors Party People > Film targato Micheal Winterbottom > 2002.

Pasquale Pezzillo>Just JoyCut

(Si ringraziano per la collaborazione: Valentina Colaianni, Loredana Sparvoli, myspace.com/iancurtisfilm, myspace.com/controlthemovieitalia, e tutti colori che hanno ricordato attimi d’emozioni)

Scheda del film

Regia: Anton Corbijn
Sceneggiatura: Matt Greenhalgh
Attori: Sam Riley, Samantha Morton, Craig Parkinson, Alexandra Maria Lara, Joe Anderson, Nicola Harrison, Toby Kebbell, Matthew McNulty, Ben Naylor, James Anthony Pearson, Tim Plester, Robert Shelly, Harry Treadaway
Fotografia: Martin Ruhe
Montaggio: Andrew Hulme
Produzione: Becker Films International, Claraflora, NorthSee
Distribuzione: Metacinema
Paese: Gran Bretagna, USA 2007
Uscita Cinema: 24/10/2008
Durata: 121 Min
Formato: B/N
Sito ufficiale: www.controlthemovie.com
Sito italiano: www.metacinema.it

Control Trailer

Programmazione Sale

Milano:
• Eliseo, Via Torino, 64
• Uci Cinemas Bicocca di Milano, Viale Sarca, 336
• Warner Village Vimercate, Le Torri Bianche

Roma:
• Alcazar, Via Merry del Val, 14
• Warner Village Parco dei Medici, Viale Parco De’ Medici 135 00148 Roma

Torino:
• cinema Eliseo, Via Monginevro, 42 Telefono

Bologna:
• Lumiere, Via Azzo Gardino, 65

Pordenone:
• Cinemazero – Piazza Maestri del Lavoro, 3

Venezia-Mestre:
• Warner Village Marcon Valecenter, Via Enrico Mattei, snc 30020 Marcon Venezia-Mestre

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3 commenti

  1. I Joy Division sono nati e si sono consumati prima che io nascessi. Non li ho vissuti nel loro contesto, li ho conosciuti solo dopo. A questo film mi sono avvicinata con curiosità, per capirne di più, con la speranza di assaggiare un po’ del loro spirito attraverso la pellicola.

    La sala raccolta (il piccolo Lumière di Bologna), il pubblico attento e silenzioso: sembrava la proiezione di una pellicola d’essai. Ed è un po’ triste realizzare che in effetti è come se lo fosse. Per me, che non conoscevo molto della figura di Ian Curtis, la pellicola è stata spiazzante, affascinante, coinvolgente. Shadowplay ha accompagnato non solo i titoli di coda, ma anche la mia commozione .

    Davvero una bella emozione, una riproduzione che mi è parsa curata e sentita.
    Una storia piena di spunti, che lascia con la voglia di correre ad ascoltare le musiche, le parole, i fantasmi di Ian e dei suoi compagni; desiderio di discutere, confrontarsi, capire.

    Fermandosi a riflettere sulla distribuzione, il minimo possibile è farsi assalire dalla tristezza: il livello culturale medio si abbassa sempre di più. Ma le persone che ho visto intorno a me nella sala, che hanno dedicato il sabato sera a Control, mi sono parse persone normali. Rifletto sul fatto che i miei gusti, la cultura cui attingo, non coincidono con quello che la tradizione generalista ci sbatte addosso. Ma è pur vero che non mi sento parte di un’élite, non mi sento più speciale di altri. Mi sembra impossibile, mi fa paura, pensare che la maggioranza delle persone si senta VERAMENTE rappresentata dalla cultura che ci circonda.

    Sensibile alla bellezza, quella vera, quella che non fa rumore. LostHighways si conferma una fonte importante, un punto di incontro privilegiato per chi insegue la propria strada, anche se a volte sembra, appunto, persa, difficile da raggiungere.
    Un Grazie di cuore a tutti coloro che hanno lasciato la loro impronta in questo articolo.

  2. Ringrazio tutti gli artisti che hanno regalato il loro prezioso contributo a realizzare questa nuova indimenticabile pagina di LostHighways.
    In particolare ringrazio 2 persone: Pasquale Pezzillo (JoyCut) e Amalia Dell’Osso che hanno saputo fornire poesia e forma al progetto.

    P.S. Per Viola: sei la prova vivente che LostHighways ha un senso.

  3. i Joy Division hanno segnato la mia vita. un percorso alla ricerca di risposte. nel buio. assieme ai Bauhaus e ai Sisters of Mercy, hanno accompagnato per anni la mia strada. spero soltato che questo film ripercorra la sua arte con stessa profondità e Anton Corbijn sa trovare le giuste atmosfere.

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