A volte ascoltare non basta. È necessario andare oltre. Soffermarsi. Guardare e lasciarsi guardare.
Questo sembra proporre il sussurro carico di senso del Santo Barbaro, giovane progetto di Forlì.
Il loro progetto, Mare morto, è un’opera corale in cui ciascuno ha contribuito a suo modo, con il proprio strumento artistico, al fine comune di comunicare.
E proprio la comunicazione, il linguaggio, le loro modalità e la loro efficacia sono al centro di questa nuova pagina di LostHighways. Pieralberto Valli, voce, polso e soffio vitale di Mare morto mette a nudo il proprio viaggio artistico intriso della sua esperienza personale e quotidiana tra queste righe; lo fa con maestria, unendo poesia e lucidità in un connubio di rara chiarezza.
Chi è il Santo Barbaro?
Barbaro è colui che si esprime in una lingua a noi incomprensibile. È il forestiero, l’altro rispetto a noi. Nella nostra cultura questo ha poco a che vedere con il concetto di santità. E proprio per questo motivo “santo barbaro” diviene un’ode alla diversità, alla molteplicità. In un racconto de Le mille e una notte si dice testualmente che “il mondo è la patria di chi non ha dimora”. Parliamo di un libro scritto dieci secoli fa. Il concetto di santità, poi, è storicamente legato al martirio, all’espiazione, e se guardiamo al percorso dei moderni “barbari” verso il nostro paradiso terreno, non possiamo non scorgere in esso una sorta di triste sacralità, di cui siamo profondamente responsabili.
Mare morto è un libro-cd. Come nasce questo progetto?
La nostra volontà era quella di raccontare, anche e soprattutto per non perdere la memoria di noi stessi, la memoria del presente. Al racconto vero e proprio si è aggiunta la musica, e poi l’immagine. Dopo aver letto i testi, Francesco Fantini ha deciso di lasciarsi suggestionare, scattando una fotografia per ogni canzone. Da qui l’idea del libro. Credo che ogni racconto abbia bisogno di un meccanismo che ne regoli lo scorrere nel tempo. Lo sfogliare delle pagine, così come il susseguirsi delle immagini e della musica, facilita il percorso della narrazione.
“Non ti accorgi che sarai tu stesso a rimanere imprigionato in un mare sacro di morte” recita l’introduzione in prima pagina. Qual è il concetto dietro il mare morto?
È il mare che circonda il nostro mondo, la nostra cultura, e ci divide da tutto ciò che si trova al di là di quel mare. È il confine che utilizziamo per difenderci, per mantenerci puri e, in fondo, per uccidere noi stessi. Stiamo circondando con il filo spinato i nostri paesi, le nostre città, le nostre case con il risultato di rimanere a nostra volta imprigionati in quello che una volta era un mare, e che ora è un nero deserto. L’immagine che ho negli occhi è quella di una persona che, attraverso il mare, approda sulle nostre coste. Sulla spiaggia ci sono tanti bambini sorridenti che roteano al sole in un enorme girotondo. Questa immagine, che dovrebbe trasmettere la gioia ed i valori del nostro mondo civilizzato, agli occhi del nuovo arrivato non è altro che una giostra di nuche e schiene chiuse verso l’interno, le cui mani, serrandosi, delimitano un dentro e un fuori, un noi e un loro.
Quella del linguaggio per qualcuno è una scienza. Per qualcuno è filosofia. Per qualcun altro ancora è arte. Ciò che è universalmente vero è che la comunicazione si muove su livelli differenti, coinvolgendo più piani sensoriali. Penso ad esempio al linguaggio dei segni, la dimostrazione che anche un muto può esprimersi; penso ancora all’improvvisazione dei bambini che nell’imparare a parlare riescono comunque a farsi capire. So che questi sono mondi a te particolarmente vicini ed è evidente nella scelta di mettere insieme parole, immagini, voci e suoni un tentativo di eliminare ogni confine tra i diversi livelli. Come il tuo quotidiano ti ha condotto in questa direzione?
Il linguaggio mi ha sempre affascinato, soprattutto per le possibilità che offre di costruire ponti tra entità separate. Ivo Andric immaginava il ponte come un angelo che, distendendo le ali, univa le due sponde di un fiume. Quello che più mi colpisce con il passare degli anni è notare come, in ogni situazione, il linguaggio diventi uno strumento potentissimo per creare comunità chiuse e riconoscibili. Hai parlato della lingua dei segni, a cui mi sono avvicinato con il sogno che in essa ci potessero essere i presupposti di un linguaggio universalmente condiviso. Mi sono dovuto ricredere, almeno in parte. Al di là delle differenze tra i vari paesi, noti come ogni comunità utilizzi questo linguaggio in modo non troppo dissimile, ma abbastanza diverso da poter distinguere in pochi attimi chi appartenga alla collettività e chi ne sia estraneo.
“Attraverso la dittatura dell’immagine la razza ariana è diventata finalmente quello che non era riuscita a essere cinquant’anni fa: Claudia Schiffer è riuscita dove Adolf Hitler ha fallito. “(Oliviero Toscani). È volutamente provocatoria, ma geniale nell’attribuire un ruolo centrale all’immagine. Come la interpreti?
Credo che oramai abbiamo falsificato tutto ciò che potevamo falsificare. Vedo la verità affogare ogni giorno, meravigliata e attonita nel ritrovarsi cosi sola, senza mani ad accorrere in suo aiuto. Abbiamo perso il collegamento tra le immagini e le realtà a cui fanno riferimento. Oramai parlare di guerra non ha più senso, è una parola vuota. Allo stesso tempo nutriamo immagini irreali, come la razza o lo stato, o categorie semplificate come “gli immigrati”. Sono immagini e categorie utilizzate come bandiere per andare all’attacco al grido di “la terra ai terrestri!”
A proposito di immagini. Tra le pagine del libro appare spesso l’uomo incappucciato con un piccolo schermo sulla testa. Io l’ho interpretato come un sistema di comunicazione muto, in cui la reale difficoltà sta nel trasmettere la complessità del pensiero concepito nella propria mente. Ho sbagliato tanto? Me ne parli?
In verità questa domanda andrebbe rivolta a Francesco Fantini. Personalmente Io vivo come l’uomo che porta la menzogna nel mondo, casa per casa, come un venditore porta a porta. Si nasconde tra i campi, senza un volto, o con un volto qualsiasi, e diffonde il germe dell’intolleranza per le strade delle città. La menzogna che porta scritta sulla testa, e che porta nel mondo come fosse una verità inviolabile, gli permette di camminare sicuro, con l’arroganza di un balilla durante il ventennio fascista.
L’unica risposta che riesco a dare a questa escalation di intolleranza che stiamo vivendo è che qualcuno, di notte, sia sceso sulle nostre città, come fa la nebbia in autunno, e sia poi ripartito al mattino senza lasciare traccia né ricordi, se non un grande desiderio di trovare un nemico a portata di mano.
“Dovremmo tutti morire prima di poter vivere e morire” (Occhi immensi). Il tema della vita si intreccia vigorosamente al tema della morte per tutto il disco. Il contrasto tra i due temi è evidente a tutti; in cosa vedi invece una sorta di sovrapposizione?
Credo che ci sia un inferno dei morti ed un inferno dei vivi, qui sulla terra. Conviviamo con schiavi ormai liberi dai gioghi e dalle catene visibili, ma in condizioni simili a quelle di un secolo fa. Sarebbe bello se Caronte avesse un fratello, dalla folta barba, che con una piccola barca traghettasse di nuovo le anime dei morti sulle rive della vita per riparare agli errori di giudizio degli uomini, o di “dio”. Mi piace pensare a una sovrapposizione, a un momento in cui non si è né nella vita né nella morte. Immagina di trovarti in una stanza, e di essere sul punto di nascere. Non sei sola, ci sono tante altre persone nella tua stessa condizione. E poi c’è una sorta di burocrate che ti consegna una lettera con l’indirizzo della famiglia in cui andrai a vivere. Ecco, mi piacerebbe che ci ricordassimo di questo istante prima di vivere. Capiremmo che gran parte della nostra vita, e dei sogni e delle speranze che in essa riponiamo, sono dettati in larga misura dal foglietto che abbiamo ricevuto.
Mi descrivi com’è la resa live di un lavoro tanto complesso? Riuscite in qualche modo a salvaguardare la completezza artistica di Mare morto o viene privilegiato unicamente l’aspetto musicale?
Ovviamente dal vivo dobbiamo cambiare molto. Le parole sospirate non avrebbero alcuna possibilità di esprimersi, ma la parola rappresenta il fulcro del nostro progetto. Il live diviene quindi molto più serrato, più appuntito, il cantato non è più sospiro, ma piuttosto contrazione nervosa. E la musica segue questa evoluzione perdendo gli abbellimenti da studio, il calore dei profumi di casa. Il fine è certamente quello di far sì che il pubblico possa entrare nella nostra realtà, possa precipitarvi dentro, ma non solo. Vorremmo che il pubblico potesse utilizzare i nostri concerti per porsi delle domande sulla propria realtà quotidiana, sulla propria storia, perché c’è già qualcuno, seduto davanti ad una scrivania, che, con estrema calma, si sta apprestando a scrivere i primi capitoli di una nuova cultura.
notevole..