La Bellezza. Quella rigogliosa, generosa, florida. Quella che guarisce, che s’irradia, che ubriaca. La Rosa Mistica che innamora. Quella che allontana il Tempo, lo dipana, lo gioca e lo reinventa. La luminosa religione delle altezze, delle febbri da Visione, Occhi Soprannaturali scuri come la terra dopo un giorno interminabile di sole; dopo una pioggia battente che ci ha sorpresi in Viale dei Cipressi sulla via del ritorno, lasciandoci storditi ed eccitati a inzupparci come bambini. Meravigliosa epifania del presente, del qui ed ora, attraverso Settimane Astrali che ci hanno visti come stranieri in questo mondo, figli dallo sguardo luminoso di un’altra epoca, di un altro luogo. Catturare il fremito di ogni singolo stelo d’erba ed accorgersi d’improvviso che “è tutto verde“, come in uno stupefacente racconto di David Foster Wallace.
Saluta Madame Gorge, ragazzo, asciuga le tue lacrime per lei, riattraversa i campi su cui correvi col tuo vecchio amore, incuranti della tempesta, ed eravate proprio come due giovani innamorati; anche Lei se n’è andata, coi suoi capelli corvini e quei sorprendenti occhioni nocciola, andata via da questi vicoli attraverso la finestra sul retro, come il piccolo Jimmy, come Freccia Spezzata, come tutti quelli con una storia troppo personale perché possa essere raccontata. Lascia la tua piccola stanza coi poster di Ledbetter e incamminati verso Northbridge seguendo la ferrovia, dove vedrai tutti i vagoni dei rifiuti scaricare gli album di foto incollati tra di loro. Ma tu vai avanti e non chiederti il perché. L’aria vibra di voci lontane, la carovana degli zingari è andata via ieri, lasciandosi dietro una vecchia radio a transistor e parecchi cuori spezzati. C’è una schifosa guerra, da qualche parte oltre questo orizzonte danzante, ma non è più reale delle creature magiche che i più fortunati (e i più ciucchi) vedono aggirarsi per questa brughiera nelle ore più strane. Tu muoviti, salta, salta sempre più in alto, stringi i denti e salta più in alto che puoi. Corri incontro alla sera cantando a squarciagola. Può anche darsi che qualcuno ti senta. Può anche darsi che qualcuno ti creda. Continua a vaneggiare, a sbraitare lungo i corridoi, ora che sei John Donne; ora che sei Walt Whitman col naso sprofondato nell’erba umida; ora che sei Omar Khayyam santificato di vino; ora che sei Robert Johnson con la chitarra in fiamme e il diavolo alle calcagna; ora che sai cosa fare, e sai che lo farai a costo della tua vita; ora che sei W.B. Yeats e James Joyce seduti col culo sopra la pietra filosofale. Hai venticinque anni, l’aria di un vagabondo dickensiano e una voce capace di far muovere una montagna. Ti chiami George Ivan Morrison, figlio di una cantante jazz e di un padre che spendeva i suoi risparmi nella collezione di blues in vinile, ma per tutti d’ora in poi sarai semplicemente Van, Van the Man, il Piccoletto con un leone selvaggio che gli ruggisce nell’anima.
Quando, nel 1970, Van Morrison pubblica Moondance, è già un piccolo Alessandro Magno della musica pop internazionale. Nato a Belfast, Irlanda, l’ultimo giorno d’agosto del 1945 (la fine dell’estate e la fine della Guerra: in certe biografie davvero nulla sembra a caso) ha già sulle spalle da elfo un trascorso da gigante. Ancora scolaretto padroneggia con facilità la chitarra e il sassofono; a dodici anni entra a far parte della sua prima band di skiffle (definito anche “il rock dei poveri”); abbandona presto la scuola, va a fare il pulitore di finestre (come ricorderà anni dopo nella canzone Cleaning Windows); i suoi miti si chiamano Leadbelly, Blind Lemon Jefferson, Sonny Terry, Muddy Waters. Inizia a suonare nei club di Belfast con i Monarchs (con cui incide un primo singolo, Boozo Hully Gully, primo posto nelle charts tedesche); vanno in tour in Germania e Van ne approfitta per fare una porticina in un film (Glide, in cui pare interpreti un giovane jazzista). Poi il ritorno a Belfast, la scoperta di John Lee Hooker, il R&B, i Betales, lo scioglimento dei Monarchs e la nascita dei Them. Così lo ricorda il manager dell’allora celebre Marittime Hotel, uno dei primi a dare fiducia e spazio al gruppo: “Morrison era incredibile. Sebbene giovanissimo, dava l’impressione di possedere una sicurezza e un’esperienza notevoli. Ricordo che cantava e si gettava sul palco, e in strane posizioni suonava il sax. Anche quando il locale era zeppo, il pubblico rimaneva in silenzio ad ascoltarlo. Era un tipo speciale. Non mostrava alcuna emozione, anche quando il pubblico impazziva. Era freddissimo, un ragazzo davvero di poche parole. Anche fuori dal palco, il massimo della sua conversazione era Ciao”. Il resto – come si dice – è Storia: brani come Brown Eyed Girl e – la strafamosa, la stracoverizzata – Gloria portano la concezione di musica pop al livello più alto, raffinato, sensuale e sublime che siano mai stati toccati. E’ rock & roll, è happening, è letteratura. Fine anni ’60 e fine dell’esperienza Them. Morrison è onnivoro: puoi vederlo come l’appassionato folk singer votato alla più romantica ricerca di Radici, o come il jazzista melanconico a la Rimbaud che però la domenica si dipinge il viso di nero e va a cantare i gospel in chiesa. Puoi trovarlo sotto un albero in un pomeriggio nuvoloso assorbito nella lettura di William Blake, o su una aereo gomito a gomito con Jimi Hendrix a parlare di mistica ebraica e Bob Dylan. Astral Weeks, il suo primo album, è doloroso, crepuscolare, sincero senza mediazioni. Voce di uno che chiama nel deserto, o meglio, dalla più profonda brughiera irlandese: John Donne si è rimesso in cammino, e noi non possiamo che ripetergli ancora e ancora: “Continua pure a delirare, a vaneggiare, nostro amato, indomabile pazzo baciato dal Cielo. “Rave on, rave on John Donne!“.
L’attacco di And it stoned me, prima traccia di Moondance, è spiazzante: un accordo basso di piano e la voce di Van che rivive una storia accaduta chissà quando, e non capisci se ha appena cominciato o è stato su tutta la notte a raccontare; sei entrato silenziosamente nella stanza dai vetri appannati e lui era già lì, circondato da un drappello di ombre ipnotizzate dalle immagini disegnate nell’aria densa. Luminosità, estate, estasi. Hai attraversato lo specchio senza nemmeno accorgerti, e ora puoi guardarti intorno e danzare libero sotto la luna piena di giugno, una mano ondeggiante sulla testa come il Mister Tambourine Man. “It’s a marvellous night for a Moondance“, ti invita Van, e proprio non ce la fai a girare le spalle e andartene. Sotto la cupola stupenda dei cieli d’Ottobre, al suono delle brezze pungenti, sei la Dama di Cuori in una notte di mezza estate shakespeariana. E lui è romantico e sfacciato come il più navigato seduttore: “Vorrei fare l’amore con te questa notte / non posso aspettare domattina…” E’ una dichiarazione senza falsi imbarazzi; Romeo teme che l’uccello dell’alba canti troppo in fretta e spezzi l’incantesimo. O forse domani non arriverà mai, e il tempo prenderà a scorrere a ritroso. Il flauto traverso che fa da “seconda voce” è il fischio sbarazzino di un folletto dei boschi; oppure il ricamo sinuoso su una calza di seta. “Quando arrivo da lei il sole può anche nascondersi… Come un ladro fa sparire tutto nella notte, Lei fa sparire i miei problemi, i miei dolori, le mie angosce“. Crazy Love: pazzo, folle amore. Ma così gentile, così intimo e silenzioso da farti dubitare (per un attimo solo, va bene) che sia di questo mondo. La voce di Morrison si prende carico dell’estate più piena e meridiana, se ne fa responsabile, si abbassa quasi sussurro per rovesciarti dritto nell’anima una cosa tanto grande. “Lei mi dona amore, amore, amore, folle amore” ed è come se l’amore fosse cantato di nuovo per la prima volta dalla Creazione. Siamo nel Cantico dei Cantici dopo il peccato originale della notte di luna giaguara. Caravan è una ballad fuori dal tempo, un “classico” fin dalle sue prime battute allegre, decise; c’è posto per un’orchestra brilla di musicisti di strada, trampolieri e mangiatori di spade. E’ tutto vivido, la sera si accende di fuochi e gli occhi della zingara Amarou “mi insegnano tutto quello che voglio sapere“. Voce e strumenti si danno sprone reciproco, fraseggiano, celebrano la fine della festa con fuochi d’artificio e brindisi intonati in coro. Si alza la nebbia, la compagnia si disperde, senza che ce ne accorgessimo è nuovamente l’alba. Ora i contorni delle cose appaiono sfumati. “Siamo nati prima del vento, ma siamo più giovani del sole“. Into the mystic è il primo bacio che hai dato a una ragazza (o a un ragazzo, o a qualsiasi cosa tu abbia baciato in vita tua), la prima volta che hai sentito la vita come un dono (non ha molta importanza da parte di Chi); è epifania, calda coperta, luci della strada. Il ragazzo taciturno è un uomo senza età che ha preso il largo col capitano Achab, il suo sguardo è Visione, la sua voce Consapevolezza. Come running, che apriva il lato B del vinile, è un agile r&b campestre che non avrebbe sfigurato nei primi lavori di Joe Cocker. Va via leggero, giusto il tempo di farti innamorare della prima fanciulla che vedi passare sotto la tua finestra. L’armonica accenna due passi di danza e siamo nel Regno abbagliante del Sogno. “Questi sogni parlano che di te, così veri e così autentici. Questi sogni che parlano di te, così concreti e così rivelatori“. These dreams of you ti stende. Slapstick comedy, pomiciate sul sedile posteriore, Viaggio. Una canzone che spara all’amore e lo resuscita, come il Ray Charles della terza strofa: “Sparavano a Ray Charles, ma lui si rialzava e cantava meglio che mai“. Non c’è più Caduta, siamo passati attraverso le porte fiorite del Soprannaturale e da oggi vivremo illuminati dai nostri sogni rivelatori, e non c’è bisogno di starsi a preoccupare: “E allora shhh, basta, non pensarci più, vai a dormire senza aggiungere altro; chiudi gli occhi. Sei un angelo mandato giù direttamente dal cielo“. Siamo quasi ai titoli di coda, ma il Nostro non ci lascerà andare prima che sia giorno fatto. Brand new day è il sorgere del sole colto nella sua disarmante miracolosità. Tieni gli occhi aperti e osservi rapito la luce conquistare lo spazio – come nelle ultime righe della Cognizione del dolore – mentre davanti ti scorrono tutte le immagini della tua vita. È il canto religioso di un vagabondo errante nella brughiera. I suoi occhi hanno visto tutto, il suo cuore ha conosciuto le età dell’uomo, la sua anima è traboccata in profondissimo cielo. L’Infinito di Leopardi scritta sui muri di un cortile di Belfast. Everyone e Glad things sono lo spensierato commiato del ragazzino che puliva vetrine diventato un clown sotto il segno della Vergine. Risate e campanelli risuonano nelle strade addobbate a festa. Non è detto che la carovana degli zingari non torni da queste parti, e noi si possa stare tutti insieme, con Robin lo zingaro e la dolce Amarou, dentro la sfolgorante cattedrale della pioggia. Era il 1970.
…mi ero ripromesso di scrivere, prima o poi, di Astral Weeks e di van Morrison.
Mi hai fregato sul tempo ma mi hai fregato alla grande.
Complimenti.