Domenica sera: la città sembra immobile, vento freddo solleva le foglie fradice e stanche per poi rigettarle a terra, solo un po’ più lontano. Il cielo è scuro e gonfio, l’autostrada riflette mille luci su asfalto e vetri bagnati. Il gelo, le gocce insistenti, il buio: clima ideale per prepararsi alla serata, la sua ostilità spinge a stringersi in se stessi e alle persone care, spinge i pensieri a mostrarsi più vividi. Le persone si stringono, accorrono e attendono che la musica degli Afterhours saturi l’atmosfera del New Age. Il compito di accogliere il pubblico spetta ad Alessandro Grazian, accompagnato in duo dal fido Nicola Manzan. Insieme regalano minuti di delizie, chitarra e violino a rincorrersi scivolando tra ritmi frenetici e melodie dolci. La voce di Grazian si conquista il favore del pubblico, che ascolta attento e si lascia scaldare dalle atmosfere del tutto particolari disegnate dall’artista.
Pochi attimi, per darsi il cambio, ed ecco il piccolo palco gremirsi. Uno ad uno arrivano tutti i componenti della band, pronti a partire. Riportano in scena le suggestioni del loro ultimo lavoro, arricchiti delle ultime esperienze che li hanno visti protagonisti: la reissue del disco, una data parigina e un tour negli Stati Uniti. Si schierano e iniziano a suonare. Il clima ha raffreddato anche le lame dei coltelli, simbolo della macabra felicità, con cui da subito, dalle prime note, gli stomaci sono trafitti: “I have never felt that well / Pain”. Poche parole, apparentemente semplici, ma cantate con tutto il coinvolgimento possibile, con la voce che si alza e diventa un po’ roca. La carica di Manuel Agnelli emerge tutta in pochi istanti, lui diventa grande come un gigante ed interpreta una versione eccezionale di You know you’re right, dei Nirvana, accompagnato dal violino di Rodrigo D’Erasmo, che arriva puntuale e ad ogni nota fa nascere un brivido. Il violino non suona: piange, si strazia di dolore. E’ un momento semplicemente perfetto. Ed è solo la prima canzone. Sinceri, eclettici, fuggevoli. Gli Afterhours sono una realtà che non ha simili: passati attraverso umori e sensazioni diversi, allontanamenti e rinascite, sono cresciuti diventando sempre più forti, imparando probabilmente anche il gusto di non dover (com)piacere. Nel loro suonare ci sono prima di tutto godimento, tensione, liberazione. La scaletta si snoda tra i brani dell’ultimo I milanesi ammazzano il sabato e glorie meno recenti, con qualche sorpresa: dopo molto tempo riportano dal vivo Pelle, una perla rarissima, che commuove per la propria sincerità. “Cerco su di me, la tua pelle che non c’è”, semplicemente. Senza raccontarsi bugie, senza nascondersi di fronte ad un dolore. Altra sorpresa della serata è Due di noi, l’inedito presente nella reissue dell’ultimo disco. Alla voce, dopo le precedenti prove, ritroviamo nuovamente Roberto Dell’Era, capace di aggiungere un colore ancora nuovo alla tavolozza sonora della band. Un brano intenso, dal vivo ancor più che nel disco: l’incedere è irregolare, il tempo è fortemente scandito da un violino ancora protagonista con le proprie ascese. Davvero simbolica della collettività di questo gruppo, la melodia è ricchissima, piena degli interventi di ognuno. Non solo suonare uno strumento, ma contribuire all’intera riuscita di un brano, di uno spettacolo: questa la funzione che ogni membro della band ricopre, offrendo il proprio talento. Il poliedrico Enrico Gabrielli è incredibile, non smette mai di suonare e si destreggia fra più strumenti: un trasformista, che dà certamente un valore aggiunto alla musica e alla performance, come pittore che osserva l’opera quasi ultimata e aggiunge i dettagli che la innalzano verso la perfezione. C’è tempo anche per riscoprire la meraviglia di Dentro Marilyn: quiete che si insinua, ammalia e spoglia. Quando la melodia esplode è troppo tardi per non esserne colpiti. Come vergine un istante prima di abbandonarsi allo sposo, si è indifesi. Mi scopro nuda, privata di ogni reazione per istanti lunghissimi. Lascio che quelle note mi facciano tutto il male che devono. Il grido di Manuel arriva dritto alla bocca dello stomaco, osservo la sua espressione e tutto quello che vedo è sconvolgimento, totale immersione. La forza empatica di questo brano e dell’interpretazione è disarmante, l’unica alternativa possibile è lasciarsi vincere. E se questo significa commuoversi o vedersi addosso i graffi violenti del violino, poco male, perché lasciarsi toccare così a fondo è sempre un’esperienza vitale. Il live degli Afterhours ha la capacità di far vibrare corde diverse, senza mai abbassare l’emozione regalata. Ci sono momenti in cui di fronte al pubblico la band crea un muro di tre chitarre così intense che sembrano voler ferire; altre volte il suono di una sola armonica dolcissima basta a scaldare un cuore. Tra il gruppo e gli spettatori si instaura davvero un legame, fatto di voci, sguardi, sudore, ma soprattutto sensazioni. Non riesco a non sentirmi addosso le espressioni che vedo sui loro volti, i sorrisi che si scambiano o la concentrazione che si percepisce. A vederli dal vivo, non c’è modo di uscire indenni: rimarrà un segno addosso che testimonia il loro passaggio, un livido che racconta una storia. Musica che rovescia le certezze e le sensazioni, che sviscera i demoni di ognuno, riordina il caos e genera confusione nello spirito ordinato. Musica di incredibile purezza, che guarisce e lava; allo stesso tempo capace di contaminare la carne più innocente, profanare ogni sicurezza.
In questa serata non c’è semplice esibizione. Qualcosa nella musica si sfoga pienamente dal vivo, trovando sul palco la propria dimensione ideale. Nemmeno gli strumenti sono solo oggetti nelle mani di chi li suona, ma sembrano avere caratteristiche proprie, un respiro. Forse il segreto è nascosto proprio qui, nel ritrovare il respiro primario delle cose, scavare in profondità e affrontare ciò che si scopre, che piaccia o no. Ognuno di noi in fondo porta con sé i propri demoni, e chissà, forse sono proprio questi a tenderci la mano in questo viaggio: “vieni a fare un giro dentro di me / o questo fuoco si consumerà da sé / e se una vita finisce qua / un’altra vita presto comincerà”. (Lost Gallery)
“Forse il segreto è nascosto proprio qui, nel ritrovare il respiro primario delle cose, scavare in profondità e affrontare ciò che si scopre, che piaccia o no”
Grazie Giulia, semplicemente.
La Loro musica è Respiro Primario. E non si perde, non si arrende. Milita gli angoli veri di un mondo in briciole.
…avrei un miliardo di cose di dire ma è meglio se sto zitto.
Sono appena tornato dal loro concerto ed è stato fantastico ma c’è un “ma”. Un “ma” che notai anche allo scorso concerto.
Aspetterò il prossimo per capire se è stata una mia impressione passeggera o se invece è persistente…
Complimenti Giulia!!!
Anch’io li ho visti e devo dire che sono stati tutti lodevoli…forse leggermente più pacati del solito ma nonostante ciò hanno spaccato!!!