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“America America is killing his youth”: paura e delirio a New Nork. Ladies and gentlemen, Suicide!

suicide001Era il 1977, l’anno in cui sono nato io. A pensarci è una delle cose più strane dire “L’anno in cui sono nato io”, perché prima dov’eri? Cosa facevi? Che musica ascoltavi? Avevi già la camicia fuori dai pantaloni?
In quell’anno, per dire, in Italia terminavano le trasmissioni di Carosello, e in tv cominciavano a trasmettere le pubblicità come le vediamo anche adesso. Wow! Quell’anno, sempre in Italia, cominciava il processo per la strage di Piazza Fontana. In quell’anno, il 1977, uscivano l’album The Clash, del gruppo inglese omonimo, e il primo episodio della saga di Guerre Stellari. In quell’anno, il 26 di giugno (io non ero ancora nato!), Elvis Presley teneva il suo ultimo concerto. E due mesi dopo, il 16 agosto, a Graceland, Presley moriva. In quell’anno, in Germania, la Rote Armee Fraktion compiva i suoi attentati terroristici. Poi arrestavano i tre leader della banda che morivano misteriosamente in carcere, chi dice per suicidio, chi dice per ben altri motivi. In quell’anno di grazia 1977, in Inghilterra, il gruppo dei Sex Pistols sputava in faccia alla Regina e al mondo con l’album Never Mind The Bollocks. Più o meno allora si cominciò a parlare di Punk.

Io non ero ancora nato.
A me, a differenza di Carlotta, la Superchiome del pezzo degli Offlaga Disco Pax, l’essere nato al tempo del punk non è che dia questa gran soddisfazione. Avrei voluto nascere prima; almeno vent’anni prima. Perché così il punk l’ho perso, insieme a molte altre cose.
Avessi avuto vent’anni, in quella fine degli anni Settanta, e mi fossi trovato dalle parti di New York (e perché no? Pare che tutto potesse succedere, all’epoca), una sera mi sarei trovato in una galleria d’arte moderna – o in un cul de sac di locale underground – ad assistere ad uno dei concerti più strani in cui mi fossi imbattuto fino ad allora (e ne avrei viste, di cose strane, fino ad allora), di un gruppo che aveva pubblicato da poco il suo primo album.
Il gruppo in realtà erano solo due tizi con l’aria da cazzoni (in senso buono, s’intende), uno impalato dietro la sua drum machine e l’altro con un naso un po’ schiacciato e con la bocca un po’ da queer appiccicata al microfono, e nient’altro. “Com’è che si fanno chiamare, ‘sti due qui?”, avrei chiesto. “Suicide, si fanno chiamare”, mi avrebbe risposto un giovane Grady Tripp al mio fianco, con un ghigno strano non so se per effetto dell’acido o della bionda che gli si struscia inavvertitamente addosso. “Suicide!”, avrei pensato, cominciando già ad amarli.
Il naso schiacciato ovvero quello dietro al microfono, per non dire “il cantante” perché non mi sembra il caso, mi suonerebbe riduttivo ed inesatto dire semplicemente “il cantante”, che si chiama Alan Bermowitz ma si fa chiamare Alan Vega, ovvero quella piccola rincagnatura del setto nasale – mi avrebbero raccontato dopo – gliel’ha regalata uno del pubblico durante un concerto. In genere dopo i primi dieci minuti che suonano, ‘sti Suicide, pare che il pubblico non la prenda tanto bene, si scatenano subito delle risse furibonde.
A quel punto mi sarei ritrovato ad essere già un loro fan accanito, avrei voluto sapere tutto di loro. Se fossi stato donna, sarei diventato la loro groupie, avrei pensato, perché a guardarli bene davano l’impressione che ne avessero anche bisogno, di un po’ d’affetto.
I Suicide, m’informa la nota free encyclopedia internettiana – tanto per non spararmi le pose di quello che So tutto io – prendono il nome da un albo della fortunata serie a fumetti della Marvel Ghost Rider (come tutti sapranno, trattasi del motociclista con la testa da teschio perennemente in fiamme) intitolato Satan Suicide. Pare che Alan Vega fosse un grande appassionato del fumetto. Anche il loro look di scena, all’inizio, era sul genere Hell’s Angel incazzato duro, giacche di pelle e catenoni.
Il loro primo album ha la copertina bianca, una stella rossa in alto al centro e, sotto, la scritta Suicide che gronda sangue denso come caramello. Sembra che qualcuno se la sia goduta a sguazzarci con le dita dentro, come i seguaci della “setta Manson” nelle loro performance omicide.
Affacciati alla finestra, amore mio… e vedrai qualcosa di molto poco rassicurante. “Outside it’s America, outside it’s America!
Questo disco ha trentun’anni e non li dimostra. Prendi album anche di quelli famosi di dieci, cinque anni fa, due anni fa, e ti sembreranno vecchissimi, stantii come cibi scaduti comperati alla drogheria all’angolo, insipidi, stanchi. Lo senti nelle voci, nei suoni, nell’atmosfera di fondo che si respira al di sotto di quello che è udibile. Forse per questo, ogni volta che pubblicano un nuovo lavoro, gli artisti parlano di “una svolta”, “una rinascita”, “un cambio di percorso”; e magari rifanno lo stesso album aggiornandone i suoni, ricantandolo.
Suicide no, non ha bisogno di restyling né di make up né di lifting. Conserva lo stesso feeling fresco e audace come se fosse stato stampato due mesi fa.
Un po’ di etichette, tanto per liberarsi subito delle etichette! A proposito dei Suicide si è parlato di punk, proto-punk, minimalismo, synthpop, industrial, steam-punk, proto-electroclash, sperimentazione, sperimentalismo, no wave, dance music, indie rock… e chiedo venia se ne ho dimenticata qualcuna. Saranno anche definizioni giuste, pertinenti, fondate, ma quest’album mi piace semplicemente ascoltarlo a luci spente, nella mia camera, con quelle belle cuffiettone tipo hamburger che ti isolano le conchiglie uditive sprofondandoti dentro l’ascolto, così, senza bussola, come in un caldo, confortevole liquido amniotico primordiale. Come in un dolcissimo incubo.
Se Suicide fosse un film, direbbe a questo punto Lucarelli, sarebbe Easy Rider rivisitato in salsa Oliver Stone. Se fosse un romanzo, sarebbe Paura e delirio a Las Vegas, o una delle simpatiche storielle paranoiche alla Philip K. Dick. Non sfigurerebbe in una piece depressiva di Sarah Kane. E piacerebbe al mio amico Andrea, che al ginnasio mi faceva le cassette di Claudio Lolli, e adesso passa le giornate a riascoltarsi i primi dischi di Fausto Rossi che nel ’78 pubblicò un album che si chiamava, guarda caso, Suicidio… “Allegriaaa!”, direbbe a questo punto Mike Bongiorno).
Non staremo qui a soffermarci sui singoli pezzi, questo è un disco che va mandato giù tutto intero come se fosse una di quelle lunghe scene lynchiane in cui si vede solo la linea di mezzeria illuminata da due fari traballanti. Attorno, un buio minaccioso, fantasmi, un deserto di serpenti a sonagli e scorpioni d’argento. Martin Rev lavora duro dietro i sintetizzatori, la drum machine e il Farfisa, senza mai strafare, e riesce a tirare fuori dai suoi giocattolini un sound sexy come una puttana dagli occhi pesti che ti si siede addosso sul letto cigolante di un motel di quart’ordine, con l’insegna al neon mezza fulminata che strizza l’occhio ai coyotes nel bel mezzo del Nulla. Frankie Teardrop sono dieci minuti e mezzo di autentico, terrificante rumore industriale, una specie di equivalente sonoro di Eraserhead. Come il film di David Lynch, evoca una raggelante, cupa e monocromatica distopia, piena di acuti e clangori da brivido, ma del tutto priva, a differenza del film, di qualche raro momento di tregua, del più piccolo, sporadico sprazzo di una bizzarra e anomala speranza”. E questo l’ha scritto Nick Hornby, nel suo 31 Canzoni.
suicide002Confrontate Frankie Teardrop con la Ballad of Hollis Brown di Bob Dylan (The times they are a-changin’ del ’64). Tredici anni dopo, i Suicide ci raccontano più o meno la stessa storia di povertà, desolazione e morte. Tredici anni dopo, il Sogno Americano ha sempre la pistola carica puntata alla tempia.
In alcuni passaggi vi sembrerà di ascoltare i Doors coinvolti in un sabba coi Velvet Underground, in altri (Cheree, Girl) Serge Gainsbourg con la patta aperta che fa profferte ad un’adolescente uscita da un film di Rohmer sullo scalone di una chiesa in cui sta celebrando il Reverendo Nick Cave. O ancora, i Joy Division pestati a sangue dai Primal Scream dopo un concerto dei Blue Öyster Cult.
In molti (Radiohed, R.E.M. e Bruce Springsteen, tra i tanti), negli anni successivi, faranno tributo a questo piccolo, acuminato fiore del male che continua, trentun’anni dopo, a spandere il suo profumo con più fragranza, seduzione e ferocia che mai.
Era il 1977, l’anno in cui moriva Elvis e il punk mostrava il dito medio al mondo.

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