Sei coltelli che fendono l’anima: Afterhours @ Casa della musica (NA) 13/12/08 (Vladimiro Vacca)
Ci vuole una grande attitudine rock per aprire un concerto con una cover di una delle band più rivoluzionarie della storia recente come i Nirvana. Iniziare con You know you’re right, deflagrando tutta la sua potenza attraverso una versione acustica dove emerge la voce maledetta di Manuel, è atto di prepotenza rock: signori, stasera assisterete allo spettacolo rock più sporco e vero degli ultimi dieci anni. Dopo l’antipasto continuano le infinite portate della tavola imbandita a 6 coltelli. Quei sei coltelli fendono l’aria e l’anima. Tra quei sei coltelli spicca il nuovo acquisto Rodrigo D’Erasmo. Ancora una volta gli After perdono un pezzo come il violinista storico Dario Ciffo ed ancora una volta ne guadagnano rinnovandosi nello stile e nella sostanza. Il violino di Rodrigo sporca di diabolico noise le armonie degli After… il suo suono sembra uscire da un Paganini che ha frequentato assiduamente i The Jesus and Mary Chain. C’è già un feeling incredibile tra Rodrigo e Manuel. Emette suoni di ogni tipo da quel violino.
Un’altra nota positiva della serata è Roberto Dell’Era che con la sua voce fornisce una valida alternativa di colore al gruppo lasciando Manuel libero di dedicarsi alla potenza ritmica della sua Gibson in Tutti gli uomini del presidente. Gli Afterhours sono ora una macchina perfetta che emana un rock caleidoscopico che trae spunto dalla tradizione della canzone italiana come in Due di noi sporcandola della tradizione anglo-americana. Tutti i brani del repertorio sono completamente rivisitati negli arrangiamenti e senza perdere smalto ma luccicando di brillantezza live diversa. Il polistrumentista Gabrielli importa tutto il suo know-how artistico anche introducendo strumenti (come lo xilofono) che apparentemente potrebbero stonare in un’atmosfera rock. Chi ci è stato non dimenticherà facilmente la batteria di Prette durante la fantastica ripescata Televisione. I brani di Ballate per piccole iene sono più acidi e sporchi, il loro rosso è più carico, è più noise stasera. Varanasy baby è più dannata. Male di miele è più graffiante che mai. Attualmente sono la migliore rock band italiana che si possa esportare per inventiva e originalità di performance live. Attualmente hanno un ampio consenso di critica e pubblico. Quei pochi che storcono il naso sono come quei fan idioti che perseguitarono il grande Bob Dylan quando svoltò dopo il periodo della canzone di protesta… alla fine chi poga ad un concerto non può apprezzare il rock acuto e prezioso degli After e non può capire che ora è giunto il momento che tutti i fautori degli After aspettavamo… è il momento del riconoscimento di una delle carriere più grandi e meritevoli del rock italiano. Andare a Sanremo significa sputare in faccia all’Italietta intera: “Esistiamo anche noi!” (Lost Gallery)
E’ solo il tempo a rivelare la stagione: Afterhours @ Palasharp (MI) 20/12/08 (Roberta Molteni)
Per le strade, fra gli umori, domina un bianco e nero che ha qualcosa di stravagante nel suo essere perentorio. È davvero dicembre. Domani sarà inverno. Milano è fredda, tagliente, ti si muove fra la gambe come un peccato che esige l’espiazione del gelo. Ti rimane accovacciata sulle spalle fin sotto al palco, fino alle prime note. Poi si scosta, ti aspetta lì accanto, quasi non osasse interferire, come intuendo la prepotente intelligenza, il coraggio, la sfacciata onestà di cui certe storie sono portatrici. You know you’re right aggiusta le simmetrie delle aspettative sulla tangente di un’emozione nuda, densa, palpabile. Manuel Agnelli canta il testo-commiato di Kurt Cobain e ce lo dona incipit, perché non sussurri un addio ma sputi un forse, un altrimenti, una bugia possibile, che vendichi la verità. Gli Afterhours guadagnano lo spazio del palco uno alla volta, ciascuno con la propria urgenza, il proprio modo sfacciato di essere eccezione, sillabe in carne ed ossa di un unico, vivo, pulsante idioma, linguaggio che conosce perfettamente le convenzioni e la grammatica del rock’n’roll, e si permette di rispettarle infrangendola, di infrangerle esasperandola. Il loro tempo non è il passato, non è il presente, non il futuro; il loro è un tempo cerchio, significante e significato, di canzoni bagaglio, di energie premonitrici, di silenzi complici, di rettitudine inviolata, inviolabile. Ogni singolo pezzo infrange l’eco del precedente insinuandosi, sporcando l’aria, ora di veleno, ora della più sfacciata poesia: veleno spietato, ammiccante, d’ironia e franchezza; poesia metropolitana, aborigena, ermetica, pura. Manuel Agnelli dirige la propria personale orchestra di spettri, di visioni: agita le braccia, dispensa energia, talento, perfezione con tutto il corpo, con il diaframma contratto in un nodo di desiderio, di volontà. Trombone, tromba e theremin, punteggiatura d’occasione, stuzzicano d’accenti l’elettricità delle chitarre e di un violino incendiario, le pulsazioni della tastiera, i fendenti d’ottone di clarinetto, sax, flauto, la marcia d’impeto della batteria. Furia e delicatezza sono le due facce della stessa medaglia: l’eleganza di certe passioni, il chiaroscuro di un certa normalità, il rifiuto degli schemi in quanto gabbie. Le parole evadono la prigionia dei luoghi comuni cadendo in gocce taglienti, contraendosi in epitaffi di controluce, disorientando il buon senso con la genialità dei punto e a capo. Non si tratta di sola adrenalina, di un muro di suoni solido, impeccabile, su cui lasciare che il tuo bisogno di urlare si arrampichi scalciando. Si tratta di un senso preciso rintracciato fra le pieghe di ogni singola sera, di ogni singola fuga, di ogni singolo gesto d’amore, d’odio, di non appartenenza. Si tratta di dimensioni e spiragli, di osare ancora una volta, fino in fondo, fino al gesto della provocazione, alla lealtà di un balzo mosso contro la mediocrità. La scaletta attinge a tutta la discografia del gruppo, da Germi fino a I milanesi ammazzano il sabato: si snoda in grappoli di tensione emotiva, di pura soddisfazione, di sudore amaro, di dolcezza leale; ogni singola canzone è un lusso, una stagione cardiaca, un balzo in avanti. Da E’ solo febbre a Bye Bye Bombay, passando per Dea, Strategie, Lasciami leccare l’adrenalina, Dentro Marlyn, Senza finestra, Plastilina; da Naufragio sull’isola del tesoro a Ballata per la mia piccola iena, Male di miele, 1.9.9.6, Milano circonvallazione esterna, Non è per sempre, Il sangue di Giuda, Tutti gli uomini del presidente, Musa di nessuno, La vedova bianca. Due di noi è la chiave di volta di quanto ancora può essere detto. Quello che non c’è cantata a denti stretti, contratta in un grido, rende giustizia alle decisioni prese, nessuna esclusa. Orchi e Streghe sono soli riesce a commuovere, come ogni volta, con il suo realismo vestito a sogno, con il suo profumo di bambina. Il sipario si chiude su una nascita che non s’arrende all’apparenza bruta delle cose ed il loro tempo resta sospeso nelle nostre gole, ancora un momento, in un grumo di fiato, uno sfiorarsi di respiri che assomigliano ad un viaggio, ad uno scegliersi, da qui al prossimo volo, in avanti, fino a che l’inverno, ancora una volta, non si sarà arreso all’ennesima idea di primavera.
“Ci si imbarca per qualsiasi posto, in qualsiasi momento, con chi si vuole, se lo si vuole davvero” (Trilogia della città di K – A. Kristof; Lost Gallery)
Si ringrazia Casasonica Management per la collaborazione.