Sono le 22:30 quando entro nella sala dell’Init. Sul palco i ragazzi de Il Cielo di Bagdad si destreggiano tra una miriade di strumenti sparsi, ancora intenti nelle operazioni di montaggio e soundcheck. Spiegano di essere arrivati tardi e si scusano dell’inconveniente. Facce e voci sempre nuove si alternano e si succedono nel ristretto spazio a disposizione facendo la spola tra le due sale contigue. La pur buona esibizione del gruppo campano è macchiata da un sound che, per la fretta, non rende affatto giustizia alle ottime capacità sonore e compositive dimostrate nell’ultimo Export for Malinconique. Ma l’attesa è tutta per i Gregor Samsa. Mentre i sette americani si riappropriano dei rispettivi strumenti sul palco, nella sale c’è ancora il chiacchiericcio di sottofondo, le risate, il rumore dei passi. E’ incredibile come cali il silenzio assoluto sul pubblico appena le luci si abbassano suggerendo un’atmosfera velata. Una voce esile ringrazia e apre il campo alla musica. È subito magia. Chiudere gli occhi per un istante che diviene infinitesimale. Riuscire a vedere chiaramente le immagini che scorrono. Suggestioni, scene di vita vissuta o soltanto immaginata, sognata.
Scoprire ancora la delicatezza dell’abbandono, la bellezza nella sua giusta misura. Dilatare la percezione del silenzio, quella che sfugge di solito, di cui abbiamo disimparato ad amarne l’incanto, a perderci nella sua disarmante immensità. Silenzio percosso deliziosamente, lievemente dalle note di piano che sanno riempirlo per disegnarne i contorni, ricamarne i bordi, mai per assalirlo, per sopprimerlo. Sembrano sassi tremolanti che precipitano in una pozza d’acqua creando infiniti cerchi concentrici (Jeroen Van Aken). Suono disarmante e profondo, ogni nota nasce e cresce gradualmente, senza fretta, con pazienza, con dolcezza, ampliandosi, dilatandosi talmente nello spazio da creare un flusso, un fiume che scorre lento, che sa aspettare il movimento delle proprie acque, sa cambiare la corrente con pazienza, al momento giusto e al tempo giusto. Flusso che sa assumere elementi pian piano, aggiungere ad un nucleo che quasi sempre è rappresentato dalla nudità del piano ora il violino ora il clarinetto, ora le voci, scegliendo il giusto colore per le atmosfere. E’ intimità. Nikki King e Champ Bennett sono seduti ai rispettivi pianoforti, uno di fronte l’altro, gli sguardi si incrociano, le voci si intrecciano amalgamandosi in un tutt’uno col suono emesso dai tasti bianchi e neri. Soffuse lentezze orchestrali riempiono di armonia l’atmosfera, veicolano i pensieri sapendosi trasformare; lasciano il posto all’interiorità del piano e delle voci, sanno inasprirsi, appesantirsi, rievocare la dura e aspra realtà con inserti elettrici (First mile, last mile), evocare maestosità (Even Numbers). Quello dei Gregor Samsa è un post rock all’insegna delle metamorfosi, le stesse che caratterizzano il personaggio di Kafka, lasciandolo sconvolto al suo nuovo destino.
Stasera sono soltanto in sette rispetto agli undici che avevano collaborato all’ultimo disco Rest. Manca qualche strumento ma nessuno ci fa caso. Tutti vorrebbero che la serata non finisse mai, ma inevitabilmente la fine arriva, troppo presto forse. La loro arte è una questione di sfumature, quelle dei colori del tramonto riflessi dallo specchio cangiante delle acque di un ruscello. Basta saperle cogliere. Abbandonarsi al torpore. Scegliere la lentezza. Godere della musica come nutrimento dello spirito.