C’è grande attesa questa sera all’Auditorium Parco della Musica per l’arrivo del folletto islandese dalle origini italiane più dolce che esista e per il suo nuovo lavoro Me and Armini. Attesa che si manifesta su tutta la gente che, fedele, riempie la sala Sinopoli, nonostante nella sala di fianco stia avvenendo l’incontro storico tra due leggende della musica mondiale, il percussionista portoricano Giovanni Hidalgo e il batterista cubano Horacio “el negro” Hernandez. La sala è avvolta da quell’ammaliante tepore che rasserena gli animi stringendoli tra le sue braccia lascive, rassicurandoli col suo barlume di calore che ristora dal gelo risoluto di un febbraio ancora indissolubilmente legato ai sapori dell’inverno. È impossibile non lasciarsi percorrere nelle vie dell’abbandono, essere dominati, atterriti da una bellezza che tanto si stenta a riconoscere oggi, in cui tutto scorre così veloce da non coglierne più le sfumature.
Fermarsi un attimo, per una sera che si dilata a oltranza e percepire l’incanto che si manifesta. Il sorriso che ti stende e i modi di fare sbalorditivi nel loro essere così spontanei, naturali e veri. La sensanzione di un candore e di una tenerezza che sentiamo lontane ma che conosciamo e alle quali aspiriamo, fatti di sostanza di quotidianità che orbita intorno al mondo dei sogni. E basta poco per capirlo. Le lampade che sanno illuminare con la propria luce, diversa da quella dei comuni riflettori. Il bagliore che sa emanare la sua serafica essenza nel riflesso della luce che sfiora con delicatezza la liscia cassa armonica della chitarra acustica. Un puntino lontano e quasi impercettibile, stella solitaria nel cosmo infinito che sembra alludere al cammino di ognuno di noi verso l’estasi. Ed è quasi paradossale per chi non ci crede ritrovarsi completamente innamorati la notte di San Valentino, come un imprevedibile e ignoto scherzo del fato. Amore che si diffonde a partire dalla meravigliosa Lovísa Elísabet Sigrúnardóttir, in arte Lay Low, accompagnata dal suo prezioso chitarrista factotum (all’occorrenza anche percussionista di cassa armonica). I due islandesi colorano l’etere con pennelli invisibili anche se la gente girovaga ancora senza trovare pace alla ricerca del posto mentre le luci rimangono accese. Ma nel momento in cui, come un piccolo elfo, entra Emiliana Torrini le lampade mostrano la propria luce unica e intima. Quel sorriso permanente che solca i languidi contorni del viso e delle semplici parole sbiadite dall’emozione: “Grazie. Io non parlo italiano“, quasi a scusarsi di ciò che ci si aspetterebbe dal suo cognome. I vari momenti, se pur diversi nell’intensità, sono accompagnati tutti da una tenerezza che deriva da quella spontaneità che commuove nel far mostra di emozioni sempre sentite, vive e sincere con piccolo imbarazzo ma senza vergogna né timore, nel cantare tutti i diversi aspetti del suo amore, quello che rende candide e dolcissime le sue canzoni e che fa colorare le guance di rosso, quello delle favole, dei modi bambineschi, quello che ti scioglie e colpisce dritto al cuore, quello che ti riscalda e ti brucia, che ti consola e ti uccide, quello che comunque vada a finire riesce sempre a rubarti almeno una lacrima. Ed è davvero stupendo vederla nel suo enorme vestito colorato urlare con risolutezza e decisione, senza remore, che il suo amore è come uno di quei tamburi della giungla che battono costanti all’infinito e forte (Jungle Drums), o è come spiccare dei grandi salti che sprizzano vita, salute e amore senza paura di rompersi qualche osso (Big Jumps) per poi essere completamente rapiti dalla dolcezza di brani intimi come Hold Heart fino ad arrivare alla intensità nuda e cruda, con la voce tremante che proviene dal cuore nella preghiera accorata di Beggar (Beggar’s Prayer) e sulle struggenti note di Bleeder ricamate dagli archi. Il brani dell’ultimo Me and Armini vengono proposti quasi tutti e funzionano alla grande accompagnati da una band davvero impeccabile, attenta ai suoni e che non sbaglia un colpo; dalla dondolante opening folk Fireheads, passando per le suggestioni reggae di Me and Armini, quelle r&b di I heard it all before, fino alla stupenda e sognante Birds. Anche l’ipnotica e ossessiva Gun, che risultava tra le più monotone e meno riuscite del disco, dal vivo assume forme nuove vitalizzata dalle dinamiche che cambiano a brano in corso, con le chitarre elettriche che sanno mostrare tutta la loro grinta in crescendo di intensità. Emiliana sorride, si lascia trasportare completamente dalle sensazioni, scherza col pubblico con quel suo modo di fare timido che tradisce un po’ di emozione. Ma i brani dal precedente Fisherman’s woman, col suo folk scarno e sincero, accendono ancora di più i cuori di chi si è affezionato a lei sulle melodie fresche e spensierate di Sunny Road, Nothin’ Brings Me Down, Today’s been ok o su quelle più raccolte di Lifesaver. Mancano, invece, del tutto brani dallo splendido seppur diverso Love in the time of science, primo disco pubblicato in Europa nel 2000 che le valse più di un paragone in negativo, immotivato, con la connazionale Björk. Al termine del concerto il tempo è sembrato troppo poco. E allora si torna fuori. La notte e il freddo. Ma dentro, nell’angolino più remoto del cuore, nel fondo delle sensazioni mai provate e soltanto sognate, il calore dell’amore cantato è penetrato indissolubilmente. E ci sentiamo meglio.