In genere la domanda più frequente che mi rivolgono quando dico che sto andando ad un concerto di Dylan è: “ma non era morto?”. Nel rispondere “certo che no!” dentro me sorrido, pensando che questo bisticcio tra la vita e la morte al Nostro divertirebbe molto, lui che ha da sempre fatto del “mistero” la propria carta d’identità. O meglio: delle sue numerose identità. Comunque, per rispondere ancora una volta ai meno informati, Bob Dylan gode di ottima salute, anzi sembra ringiovanire di anno in anno, tenendo fede a quanto diceva nella sua My Back Pages: “I was so much older then, I’m younger than that now”. Parlare di un concerto di Dylan – per un dylanista quale il sottoscritto – è come per un cattolico praticante parlare della Santa Messa (è chiaro l’accostamento un po’ forzato: la seconda è decisamente meno coinvolgente del primo!). Quando pochi minuti dopo le ventuno i sei in rigoroso abito scuro (un po’ gangsters, un po’ spettri shakespeariani) salgono sul palco del Palalottomatica, sai già che nelle prossime due ore sarai totalmente in balìa loro, pronto a mollare tutto e a seguirli come l’uomo caduto nell’incantesimo del Mr. Tambourine Man.
Col cappello, la giacca che sembra sempre di una misura superiore e gli inseparabili pantaloni neri con la riga bianca, His Bobness (Sua Bobbità, nel gergo dei fan più dylaniati) prende posizione alla tastierina posta alla destra del semicerchio formato dalla band, dando senza indugi il la ad una Cats in the Well buona a sgranchirsi le dita e la voce. L’atmosfera diventa subito intima nella successiva Don’t Think Twice, It’s all Right, proposta nella millesima versione differente. Superfluo ribadire che Dylan non eseguirà mai lo stesso brano con lo stesso arrangiamento in due serate diverse. Molto fedele all’originale è il terzo pezzo in scaletta, una Things Have Changed tiratissima, con Dylan che emoziona semplicemente imbracciando la chitarra (cosa che concede sempre più raramente, dal vivo). Tutto il concerto (diciotto brani in scaletta) seguirà più o meno questo andamento: un pezzo tiratissimo ed una ballad lenta, con la band che giganteggia in eleganza, precisione e potenza in entrambi i registri. Su tutti, va sans dire, un Dylan grandissimo, che riesce a commuovere anche solo soffiando delle semplici note nella sua armonica. E la voce, poi: lampi di luce che rompono d’improvviso la scorza dura e difficile cui Dylan ci ha abituati in questi ultimi anni; cavernosa, tonante e profetica come in Tweedly Dum & Tweedly Dee (dall’album Love & Theft) o dolce, nostalgica ed emozionata in Return to Me (cover di un vecchio brano di Dean Martin!). Esplosive le riletture di capolavori quali It’s All Right Ma’, Highway 61, Like a Rolling Stone – con tutto il Palalottomatica che intona quell’ “how does it feeeeeel?!” del ritornello con un’energia che sembra lì lì sul punto di trascinare Dylan stesso a ricantarla nel modo in cui l’aveva incisa nel ’65, cambiando definitivamente il corso della musica popolare, non solo nel mondo anglosassone. Nessuna anticipazione, invece, del nuovo album Together Through Life, in uscita il 24 Aprile. Peccato siano solo tre le date riservate all’Italia (nessuna a sud di Roma) per il 2009 di questo neverending tour che va in giro senza soste dal giugno del 1988, e la speranza è che continui il più a lungo possibile… e che il fu Mr. Robert Allen Zimmerman possa preservarsi Forever Young, per sempre giovane. Un concerto da ricordare per tutti i fortunati presenti, come M., vent’anni, la prima volta in assoluto che ascoltava Bob Dylan, sorriso entusiasta alla fine del concerto, e che potrà rispondere – a chi glielo chiedesse – che no, Bob Dylan non è morto, accidenti, e come se non lo è!
Ero al concerto e credo ci sia da fare una premessa d’obbligo: l’acustica assolutamente orrenda è stata determinante per la percezione del concerto, soprattutto a coloro che hanno pagato il prezzo più alto(70 euro) per ritrovarsi a sentire anche peggio di altri. Coloro che scelgono di fare concerti del genere al palalottomatica sono assassini perchè uccidono la musica!
Per quanto riguarda Bob è palese che non ha quasi più voce nè fiato. Scandisce ogni frase in maniera lapidaria, non tiene più le note e canta con la quasi totale assenza di melodia. Le parole a stento si riescono a comprendere tra quella voce roca e cavernosa.
Una voce che si destreggia molto meglio sui pezzi più blues degli ultimi dischi piuttosto che sui classici.
Ma ci sono quei “guizzi” ogni tanto. Rari, ma che colpiscono al cuore soprattutto chi si è innamorato della sua musica nel tempo. Li senti e capisci che è sempre lui, che il tempo lo ha vinto. E ogni volta che suona l’armonica abbatte ogni confine!
Gli arrangiamenti sono tutti sconvolti e questo lo si sa. Ma fa veramente strano vedere quasi l’intero Palalottomatica non riconoscere Blowing in the Wind in chiusura…
Ma la cosa bella e inaspettata è vedere come la gente lo adori in maniera incredibile. Tantissimi ragazzi giovanissimi tutti lì per lui che si dicevano a fine concerto: “E’ il più grande, è il numero 1!”. E allora quella domanda diventa inutile quasi stupida; il mito si rinnoverà sempre fresco di generazione in generazione sconfinando anche oltre la musica. Così, statene certi, Bob Dylan non morirà mai!